La Nuova Sardegna

Gino Paoli: «La mia musica, un canto libero senza confini»

di Costantino Cossu
Gino Paoli: «La mia musica, un canto libero senza confini»

Il tour del cantautore insieme con Danilo Rea arriva al Teatro Comunale di Sassari 

18 aprile 2018
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SASSARI. Un’ icona della canzone d’autore e un protagonista di primo piano della scena jazzistica nazionale: Gino Paoli e Danilo Rea protagonisti oggi  18 aprile al Teatro Comunale di Sassari (con inizio alle 21) col loro concerto “Due come noi che…”.

Un concerto con Rea. Come è nato il vostro rapporto? E perché la scelta di andare sul palco con un musicista jazz?

«Il jazz è qualcosa che mi accompagna da sempre e sicuramente mi ha influenzato sin da subito nella costruzione delle canzoni, sia nella base melodica sia in quella armonica. Ho cominciato ad ascoltarlo che avevo 12 anni, quando davanti casa mia c’erano i carri armati americanI. È stato un colpo di fulmine quando ho sentito la tromba di Louis Armstrong. Da ragazzo, con gli amici facevamo il jazz per conto nostro e a quei tempi suonavo la batteria. Avevamo i primi gruppetti e facevamo finta di fare il jazz. Sono sempre stato un appassionato ascoltatore, ma anche esecutore, tanto che continuo a farlo anche oggi. Quindi direi che la scelta di andare sul palco con un jazzista sia naturale. Il mio rapporto con Danilo è nato soprattutto grazie al fatto che abbiamo una sensibilità simile, e un’intesa particolare che è difficile spiegare a chi non è un musicista. Sul palco siamo in simbiosi».

Lei ha attraversato la storia della musica italiana dai primi anni Sessanta sino ad oggi. Come è cambiato, in tutto questo tempo, il mondo della musica, sia dal punto di vista creativo sia dal punto di vista dell’industria discografica? Che cosa ha comportato, in particolare, l’avvento delle tecnologie digitali?

«Le nuove tecnologie hanno portato un grande cambiamento. Se usate nel modo giusto possono essere un ottimo strumento per moltiplicare le opportunità, ma servono regole chiare e condivise. Detto questo, la trasformazione è cominciata molto prima del loro arrivo: la canzone da mezzo espressivo è passata ad essere un prodotto. E viene trattata come tale, senza alcun fine poetico. C’è una spinta verso la canzone che cerca il successo, una tendenza ad accontentare il pubblico, come succedeva prima dei cantautori».

E nella società italiana, che cosa è cambiato da “Sapore di sale” a “Occidentali’s Karma”?

«Oggi è tutto molto diverso. Nel periodo tra dopoguerra e boom economico, la gente aveva molte speranze. Erano tutti elettrizzati. Per questo si pensa agli anni Sessanta come una sorta di Shangri-La. Era l’Italia che cercava di risollevarsi, la necessità di rialzarsi da una forte batosta con tutte le speranze che questo comporta. Alcune canzoni di allora sono impensabili fuori da quel contesto, che era tutto sommato positivo».

Nel nuovo cd “3” lei rilegge, insieme con Danilo Rea, Brassens, Gainsbourg e Brel. Canzone d’autore… La canzone è cultura? E se è cultura a che cosa serve la cultura oggi?

«Oggi ho dei dubbi che si colleghi la cultura alla conoscenza, mentre per me il fine della cultura dovrebbe essere quello di aiutare a capire i processi in atto per garantire scelte realmente libere. Sicuramente la canzone è stata cultura. Anche la dicomusic può essere culture, se fatta in un certo modo. Oggi tuttavia la cultura sembra interessare a pochi, e i segni di questa mancanza sono davanti agli occhi di tutti».

Oltre ai francesi, quali musicisti hanno contato di più per lei?

«Il jazz fa parte della mia cultura, ma allo stesso modo posso dire di avere anche una cultura operistica, perché son cresciuto con un padre appassionato di lirica che cantava le romanze, le piéce d’opera. E poi, i grandi della canzone napoletana, che erano dei veri poeti… Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, solo per citarne alcuni… Questo per spiegare che uno assorbe tante cose diverse nel corso di una vita, e poi deve cercare di fare il suo».

Hanno contato soltanto musicisti o anche, ad esempio, scrittori, e quali?

«Ce ne sono tantissimi… La parte più affascinante dei libri è che puoi parlare con persone interessanti che hanno vissuto mille, duemila anni fa».

Lei nasce a Monfalcone, nel 1934. Agli inizi della sua biografia ci sono un padre toscano e una madre giuliana. Molti suoi parenti da parte materna furono coinvolti nell’esodo giuliano-dalmata. Ha un ricordo di quel periodo drammatico?

«Da Monfalcone sono andato via che ero molto piccolo, ma mia madre e mia zia mi ricordavano spesso i nomi di quelli spariti nelle foibe. In quegli anni sono successe cose agghiaccianti; una pulizia etnica, non politica. I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone pacifiche. I partigiani jugoslavi presero e li ammazzarono con un colpo alla nuca, e poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia conservarono indelebile il dolore».

E del ritorno dei venti di guerra (ma anche del razzismo e delle contrapposizioni ideologiche violente nel mondo di oggi) che cosa pensa?

«Io a Genova ho vissuto la guerra: avevo i carri armati tedeschi parcheggiati davanti a casa e, dietro, i cannoni puntati verso il mare per un’eventuale sbarco degli Alleati. Il ricordo peggiore è l’assurda normalità della guerra. E della morte. Le atrocità non hanno colore, per questo sono contro le guerre: la guerra trasforma l’uomo, segnandolo per sempre con i suoi orrori».

Quanti anni aveva quando la sua famiglia si trasferì a Genova? Cos’è per lei quella città?

«La mia famiglia si trasferì da Monfalcone che avevo pochi mesi. La “mia” Genova è quella di allora: gelosa, difficile da penetrare, diffidente. Una Genova diversa da quella di adesso, anche se posso dire che guardarla e un po’ come guardarmi allo specchio: fuori la fisionomia cambia, ma dentro siamo sempre gli stessi».

Per Gino Paoli conta di più la libertà o la giustizia?

«Libertà e giustizia sono due facce della stessa medaglia, importantissime e imprescindibili. La libertà ha a che fare con la coscienza di ciascuno, ed è una delle cose più dure da raggiungere. Oggi molti ragazzi fanno fatica a capire il valore dell’essere liberi. Gli manca la tensione alla libertà, non la cercano oppure ne hanno paura».

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