La Nuova Sardegna

«Il difficile rapporto della Sardegna con la modernità»

di Giacomo Mameli
«Il difficile rapporto della Sardegna con la modernità»

Intervista con l’antropologo-scrittore Bachisio Bandinu che parla del suo romanzo “L’amore del figlio meraviglioso”

25 aprile 2018
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Il romanzo “L’amore del figlio meraviglioso” che La Nuova Sardegna propone ai lettori da venerdì prossimo nella collana “Scrittori di Sardegna” è stato pubblicato nel 2011. L’autore, Bachisio Bandinu, ne ricorda la genesi: «Insegnando ad Arzachena ho avuto modo di rilevare l’esplosione turistica della Costa Smeralda e di vivere l’entusiasmo della popolazione, le contraddizioni dell’incontro tra la pastorizia della sussistenza con la più elaborata economia-cultura d’Europa. Ho avuto modo di scrivere una ventina di quaderni su tutto ciò che accadeva. Ecco: quel romanzo è nato dalla memoria di quella esperienza per raccontare una famiglia, padri e figli, evidenziando le differenti risposte dei suoi stessi membri».

Bandinu (Bitti 1939) racconta passeggiando nel giardino della casa di Sos Aranzos, porte di Olbia. Un bel vedere, pietre affiorate, cisto e mirto, e olivastri. Sardegna è questa che si calpesta. Mare e cielo sardo ciò che si vede. Si parla di coste e di monti, Gallura e Barbagia. Perché Bandinu ha iniziato a fare l’insegnante di Lettere ad Arzachena dal 1967, era stato a Gavoi e Orosei, poi il liceo del paese dov’è nato e che ama dal profondo de sas intragnas. Poi un liceo di Varese. Dopo il master padano il back a Romanzèsu. Discorre a modo suo, più chiaro non si può. Del resto è noto che l’antropologo-scrittore-giornalista è l’oratore ascoltato con maggiore attenzione in Sardegna data la perizia nel miscelare al meglio l’italiano a una parlata sardo-ciceroniana forgiata sul Gennargentu.Spunta con le cesoie alcuni rami da un alberello di cannonau. Si torna col pensiero ai molti romanzi, “Il re è un feticcio” lo aveva scritto nel 1976 con Gaspare Barbiellini Amidei, ma preferisce stare al tema. E chiede: qual è la domanda? Eccola.

Quanto è attuale questa immagine descritta nel libro: «Che cosa vedo? Sulla collina, cervo, capra o muflone? Nella valle, vedo mia madre raccogliere bacche di lentisco, come se sgranasse un rosario. Forse è ricomparsa per indicarmi la strada».

«Oggi in Costa non ci sono le capre a brucare virgulti di macchia mediterranea e neppure donne che sgranano rosari con bacche di lentisco. Non ci sono segni per indicare antichi sentieri, la segnaletica è di legno laccato e metallo verniciato a fuoco: sfondo bianco con scritta in nero, con unico carattere. Tutto deve suggerire un piacere estetico, un supplemento naturalistico: nessun punto deve sfuggire, neppure il cespuglio e la pietra a lato della strada. Non ci sono più spazi come brandelli di alfabeti antichi, persino le travi di ginepro paiono legni di nobiltà nuova. Dalla linea del mare a scalare sulle colline sorgono ville, ristoranti, boutique, nigt, aiuole e giardini. Fallisce ogni rivisitazione: è cambiato lo spazio e il tempo. Nessun confronto possibile tra l’antica civiltà gallurese e la più raffinata cultura del capitalismo internazionale».

Molti dicono che così facendo la Gallura è diventata d’oro.

«Bastava poco per mantenere un rapporto segreto tra lo stazzo di Gallura e l’Hotel di lusso. Bastava mettere nella hall del Cala di Volpe lu balastraggiu, la madia per pane e formaggio da offrire in dono ai turisti per il piacere di sapori antichi. E magari in un angolo appartato riadattare l’antico forno-focolare con fascine di cisto per la cotta del pane da intingere nell’olio raffinato e fruttato di lentisco. Ma l’assenza più luttuosa è la scomparsa delle capre con lo sguardo sghembo e interrogante, col mantello maculato di colori di terra, con i campanacci, squilli di musica ancestrale. Comunque si è ancora in tempo per farlo».

Un personaggio, fra tanti altri, domina il libro. Chi sono i Priamo Solinas di oggi?

«I Priamo Solinas di oggi hanno imparato con intelligenza a guardarsi allo specchio delle acque smeralde, facendo proprio il codice turistico. Sanno distinguere i ciottoli dai diamanti. Il povero contadino aveva tutta l’economia di un anno nel ripostiglio di una cassapanca e guardando il miracolo che gli cadeva addosso diceva: “No è cosa che faci pal noi. Eu no sapia chi la tarra mea di petra e di mucchiu era unu suiddatu. Lu tempu no era lu nostru”. Allora la domanda era: com’è che la terra produce tanti frutti senza pascoli di greggi, senza essere solcata dall’aratro e irrigata dalle acque?».

C’è stato il passaggio-metamorfosi dal baratto al capitalismo.

«Non era una impresa facile passare dal salvadanaio della famiglia al capitalismo bancario, saper passare da li milioni come cifra indeterminata a una calcolata contabilità. È passato il tempo della contesa epica e comica tra il vecchio capraro e il principe riguardo alla vendita dei terreni quando la favola raccontava offerte milionarie e deciso rifiuto. Così anche gli imprenditori galluresi hanno saputo ripetere messaggi pubblicitari: “A due ore dalla vostra porta c’è ancora un pezzo di costa con acqua cristallina. Venite nel più vicino dei posti fuori del mondo”».

Vede sempre, in una Sardegna piena di case vuote, un’isola perennemente afflitta da orgia cementizia?

«Non è facile per i sardi abitare con amore la propria terra, la propria casa, ristrutturare l’antico invece che costruire il nuovo imparaticcio della piccola borghesia, qualcuno ha riproposto il modello smeraldino persino nei paesi dell’interno. A centinaia di case vuote si risponde con una crescita di nuove costruzioni. Ma non è di poco conto la responsabilità di una politica afflitta appunto da orge cementizie a favore di una edilizia mangia coste e di una bulimia consumistica di suolo. Una sfida mancata è stata quella di inventare una possibile relazione architettonica tra stazzo gallurese e hotel smeraldino, senza improbabili imitazioni bensì con creatività artistica che affermasse una parentela antropologica».



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