La Nuova Sardegna

Gli antichi sardi erano anche contadini

Lavori di recupero dei reperti nello stagno di Santa Giusta
Lavori di recupero dei reperti nello stagno di Santa Giusta

Ritrovati nella laguna di Santa Giusta resti di susine, angurie, pinoli e noci risalenti al 500 a.C.

17 maggio 2018
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CAGLIARI. Susine, angurie, olive, zucca da vino, pinoli e bacche di ginepro in tavola e nella dieta degli antichi sardi. Tutto rigorosamente prodotto nell’isola, secondo quanto documentato dall’équipe archeobotanica di HBK (l’Orto botanico dell’ateneo), in collaborazione con il Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università di Cagliari, la Soprintendenza Archeologica e l’Instituto de Historia del Consejo Superior Investigaciones Científicas (CSIC), in un articolo pubblicato su “Vegetation History and Archaeobotany”, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali del settore.

Un articolo che documenta i ritrovamenti degli archeologi sul fondale della laguna di Santa Giusta, che successivamente sono stati trasferiti presso la Banca del Germoplasma della Sardegna (BG-SAR) e analizzati dal punto di vista morfologico attraverso il confronto con le collezioni di materiali moderni. Tutti i materiali sono stati conservati all’interno delle celle frigorifere con l’obiettivo di preservare sia la loro morfologia che l’eventuale Dna antico ancora presente. Le indagini hanno permesso di verificare la presenza di resti vegetali riferiti a mandorle, nocciole e noci a cui si aggiungono numerosi semi di vite, susino, anguria, olivo, zucca da vino, pinoli e bacche di ginepro. Lo studio ha consentito di documentare la presenza in Sardegna dei primi alberi da frutto probabilmente introdotti dai Fenici e dai Punici tra il 500 e il 200 a.C. e rappresenta attualmente una delle prime testimonianze dirette dell’uso di queste risorse da parte di questi popoli navigatori. Si tratta di ritrovamenti di grande importanza, che danno anche nuovi impulsi per proseguono gli studi su altri contesti subacquei della Sardegna per meglio comprendere l’origine e la domesticazione delle specie frutticole anche in un’ottica di valorizzazione delle varietà locali.

Del resto questi argomenti stanno riscuotendo un grande interesse negli ultimi anni, a partire dalla notizia che furono proprio i sardi a coltivare la vite e a produrre il vino nel Mediterraneo quasi tremila anni fa. Una scoperta anche questa della stessa équipe archeobotanica dell’Orto botanico dell’ateneo cagliaritano, che 6 ha dimostrato che in Sardegna la coltivazione della vite domestica non sia stata un fenomeno d'importazione, fino a quel momento attribuito ai Fenici che colonizzarono l’isola, ma un fatto prettamente autoctono.

Quel lavoro aveva dimostrato che i resti organici ritrovati in perfetto stato di conservazione in un pozzo, che faceva da “frigorifero” naturale a un nuraghe nelle vicinanze di Cabras, fossero semi di vite – in particolare di vernaccia e malvasia - e risalissero all’Età del bronzo medio. A chiudere la discussione fu poi l’esame di alcuni resti organici contenuti in un torchio nuragico ritrovato nei pressi di Monastir: le analisi chimiche rivelarono tracce dell’acido tartarico presente nell’uva e così tutti i dubbi sono stati fugati perché quel torchio ad altro non poteva servire se non alla produzione del vino.

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