La Nuova Sardegna

Cabiddu: «La mia Cavalleria rusticana? Un film narrato dalla musica»

Cabiddu: «La mia Cavalleria rusticana? Un film narrato dalla musica»

Il regista parla del suo esordio con un’opera lirica al Teatro di Cagliari

17 maggio 2018
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«Cavalleria rusticana è come un film, dove la musica racconta esattamente i sentimenti. Dice tutto la musica. Quanti passi devi fare, se ti devi fermare, se devi portare una mano alla testa, è tutto scritto». Musica, cinema e opera lirica, Gianfranco Cabiddu a poche ore dalla prova generale di “Sancta Susanna” di Hindemith e “Cavalleria Rusticana” di Mascagni – al debutto sabato al Teatro Lirico – sintetizza il percorso artistico che lo ha portato alla sua prima regia lirica.

Un filo rosso, per il regista del pluripremiato “La stoffa dei sogni”, che si snoda dal Conservatorio di Cagliari, passando per gli studi di musica elettronica e di etnomusicologia a Bologna, con le esperienze sul campo per l’università di Roma tra spedizioni in India, Birmania e a Bali nel progetto di ricerca sui rituali di trance basati sulla musica e la documentazione del lavoro teatrale di Eduardo, Gassman, Carmelo Bene, fino al cinema.

Un lungo viaggio che sembra un breve passo, dice Cabiddu, che oggi vede come un coronamento «la felicità di lavorare con un’orchestra e cantanti bravissimi, su musiche così diverse tra loro, e farlo a casa propria. Lavorare nel posto dove a cento metri ho iniziato a dodici anni ad andare col flauto a lezione da Gesualdo Pellegrini… è come tornare a casa! In qualche modo – aggiunge il regista – mi sembrava doveroso rispondere alla richiesta dell’Ente Lirico con l’idea di pensare anche di portarla poi sul grande schermo: è questo che mi ha stimolato di più. In fondo non c’è cosa più popolare al mondo dell’opera lirica, e di più importante del far circolare la nostra Storia, quella con “S” maiuscola, non folclorica, fatta di fatica e sudore».

Il regista si riferisce all’ambientazione «a bocca di miniera, atmosfera e storia che conosco bene, da quando vent’anni fa girai “Il figlio di Bakunin” e proseguii con i documentari per l’Unesco sul Parco Geominerario e gli allestimenti del Guspinese e Iglesiente, che con le istallazioni narrano l’epopea mineraria. Non ci rendiamo conto, ma il nostro è il patrimonio di storia mineraria forse più grande d’Europa, nato in una Sardegna industriale e all’avanguardia, in modo quasi avveniristico. A Porto Flavia, immaginare di bucare una montagna e fare un porto a strapiombo sul mare era veramente avanguardia tecnologica. Mi è sembrata l’atmosfera e la location ideale dove ambientare una Cavalleria un po’ diversa».

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L’approccio nell’affrontare le due opere è stato ispirato al centenario della Prima Guerra Mondiale, spiega il regista: «È questo lo spartiacque, perché Cavalleria è stata scritta a fine Ottocento e Santa Susanna negli anni Venti. Dal punto di vista musicale le due opere sono lontanissime perché la guerra in mezzo cambia completamente percezione, urgenze, sensibilità e musica. Entrambe le opere parlano di donne, vittime dell’ambiente in cui vivono, ma con una forza che nasce dall’interno, una natura che si manifesta più forte di loro e che in qualche modo è la vita, che le costringe a fare scelte anche drammatiche.

Santa Susanna è una monaca che come Santa Teresa Avila attraverso la preghiera giunge ad uno stato di coscienza in cui sente di donarsi a Cristo in maniera totale. Nonostante la avvertano dei rischi, lei non riesce a resistere a questo senso che entra con la primavera, col vento, col rumore. Opera moderna e affascinante, ha molti elementi di musica concreta, rumoristica. In Cavalleria Santuzza accetta per amore di essere scomunicata, e vede in Turiddu il suo appiglio alla vita, la sua protezione.

Nel mio Turiddu ci sono i segni lasciati dalla guerra, è un uomo preda di sentimenti ondivaghi, e quando al ritorno si scopre ancora innamorato di Lola che forse per necessità ha sposato Alfio, alla fine accetta una sorta di sacrificio, perché sa di andare a morire, quando saluta la madre e le affida Santuzza. Il mio lavoro sui cantanti – conclude Gianfranco Cabiddu – è stato proprio concentrarli non solo sulle parti cantate ma come quella musica li accompagnava alla parte che doveva cantare.

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