La Nuova Sardegna

L'intruso. Gabriele Verdinelli: «Quel sorriso stanco di Olmi e la poesia immortale dell’Albero degli zoccoli»

di Gabriele Verdinelli
Gabriele Verdinelli, docente al Conservatorio e compositore
Gabriele Verdinelli, docente al Conservatorio e compositore

Gavoi, pochi anni fa. Un bambino vecchio con tanti capelli. «Maestro, abbiamo visto L’Albero degli zoccoli l’altro giorno, bellissimo!». Un sorriso accogliente, un po’ stanco: «Grazie». Ma in realtà...

19 maggio 2018
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Gavoi, pochi anni fa. Un bambino vecchio con tanti capelli. «Maestro, abbiamo visto L’Albero degli zoccoli l’altro giorno, bellissimo!». Un sorriso accogliente, un po’ stanco: «Grazie». Ma in realtà c’era poco da ringraziare. Lo scoprite adesso? Com’è stato possibile che uno dei film più importanti degli anni ’70 fosse stato da troppi citato ma nei fatti misconosciuto, meravigliando una generazione giusto per il trionfo al festival di Cannes? Le tre ore di durata e i dialoghi in dialetto bergamasco non hanno certo aiutato l’apprezzamento del grosso pubblico, ma solo la temperie ideologica di quei tempi poteva sminuire una tale opera, snobbata per la fede religiosa del proprio autore e per i contenuti, che sembravano sostituire con la rassegnazione e il fatalismo lo scontro di classe, allora al centro del dibattito sociale e politico. C’è voluta la scomparsa di Ermanno Olmi per rivedere il suo capolavoro dopo quaranta anni e riflettere meglio, ancora una volta, come etica ed estetica siano misura imprescindibile della vera arte. Nell’arco di un anno con le sue stagioni agricole, il film racconta le vicende quotidiane di quattro famiglie contadine, segnate implacabilmente dalle immani fatiche nel lavoro e dalle necessità legate alla sopravvivenza. Le poche gioie di questa umanità tormentata appaiono assai lontane dalla tradizionale consolazione fideistica: non c’è posto per alcuna agiografia della vita sui campi e neanche per la nostalgia di valori perduti o dimenticati. L’occhio del regista appare discreto e segue i partecipanti nel suo affresco, fino al drammatico epilogo, in maniera quasi documentaristica, ma senza distacco, con una partecipazione sempre trepida e appassionata. La narrazione, nella sua semplicità, ha momenti di solennità sacrale legata spesso agli atti fondamentali della vita, sottolineata anche dal bellissimo commento musicale organistico capace, pur nell’apparente estraneità, di elevare i gesti quotidiani fino a un evidente significato rituale. Naturalmente tutto ciò è unito da una forma rigorosa e da una coerenza ferrea in tutti i suoi elementi: nessun autocompiacimento o ricerca della bella immagine fine a sé stessa, nessun indugiare su elementi estetizzanti o superflui anche nella recitazione degli attori dilettanti che, fondamentalmente, interpretano sé stessi. Predominano colori bruni e luci opache in uno scenario realistico dove anche gli esseri viventi sembrano emanazioni della terra, come nei quadri di Millet o del primo Van Gogh, in una vigorosa denuncia sociale che non è certo meno severa per i suoi toni cupi e sommessi. Olmi in una delle sue ultime interviste: «La vera poesia si nasconde…». È vero, sta a noi cercarla.

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