La Nuova Sardegna

Ian Anderson: «Soffia ancora il vento di Soho»

di Andrea Massidda
Ian Anderson: «Soffia ancora il vento di Soho»

Parla lo storico leader dei Jethro Tull La band in concerto a Cagliari il 21 luglio

20 maggio 2018
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CAGLIARI. Alla fine degli anni Sessanta, quando nel rock imperavano le chitarre elettriche, presentarsi su un palco come frontman imbracciando un flauto traverso era un po’ come sfidare con la cavalleria un esercito dotato di carri armati. Nessuno sarebbe stato disposto a scommettere sul tuo successo. Eppure Ian Anderson, che all’epoca aveva appena vent’anni, ebbe il coraggio di farlo. Ci credeva moltissimo. Così, lui che arrivava dalla Scozia, si propose con il suo gruppo al mitico “Marquee club” di Londra. Per farla breve, nonostante i critici musicali britannici e persino il suo manager storcessero il naso, quel giorno (era il 2 febbraio del 1968) iniziò l’incredibile e meravigliosa avventura dei Jethro Tull, una band che ora è considerata a pieno merito tra le più importanti della musica di tutti i tempi. Il bello è che adesso, per celebrare i cinquantesimo compleanno della formazione, Ian sta facendo un pazzesco tour mondiale che il 21 luglio toccherà anche Cagliari con un concerto in programma negli spazi allestiti alla fiera. «Proporremo uno sguardo ampio sui primi dieci anni dei Jethro Tull – rivela lui stesso –, perché la maggior parte dei nostri fan ci ha conosciuto in quel periodo. Quindi – aggiunge – in teoria per il pubblico potrebbe essere una serata nostalgica. Per me, invece, assolutamente no: sarà soltanto un concerto con canzoni che ho eseguito ventiquattro ore prima, ossia il tempo trascorso dalla performance precedente. Scherzo – precisa –, io non propongo nostalgia. Ho troppo “qui e ora” a cui pensare quando sono sul palco».

Mister Anderson, con questo tour lei e i Jethro Tull festeggiate cinquant’anni di attività. Se la sente di fare in estrema sintesi un bilancio di questo mezzo secolo di successi con 60 milioni di dischi venduti?

«Giocare un piccolo ruolo nello sviluppo della musica popolare e rock, specialmente negli anni Sessanta e Settanta, è stata indubbiamente un’esperienza molto ricca e gratificante. Inoltre abbiamo testimoniato i cambiamenti nel mondo attraverso la crescita dei media, la maggiore uguaglianza tra uomini e donne, la comunità gay e le varie etnie oppresse. La musica ha espresso e influenzato queste evoluzioni come parte dei progressi sociali e culturali. Non è poco, direi».

Che cosa ricorda di quel giorno in cui i Jethro Tull si esibirono per la prima volta al celebre Marquee club di Londra?

«Avevamo appena cambiato il nostro nome per la quarta volta in altrettante settimane e il Marquee era ormai per noi un locale amico, perché ci avevamo suonato già altre tre volte. Ricordo che vedevamo crescere il numero del pubblico. Poco tempo dopo eravamo saldamente sul radar della stampa musicale».

Erano oltretutto gli anni della Swinging London. Che atmosfera si respirava a Soho in quel periodo, con tanti talenti in giro in un piccolo quartiere?

«Non ne ho idea, visto che vivevo a nord nell’ora inafferrabile Kentish Town. Soho era in effetti un quartiere di spogliarelliste, bar, ristoranti cinesi e industria del cinema e della musica. Ma in realtà Londra non ha oscillato da quelle parti. Le zone cool erano Chelsea e Kensington: lì andava la gente alla moda».

Lei è un polistrumentista, ma è stato indubbiamente il primo musicista di rilievo al mondo a introdurre il flauto traverso nel rock come strumento di prima linea. Quale fu, all’inizio, la reazione del pubblico abituato a un frontman con la chitarra? Ma anche quale fu la reazione dei critici musicali e dei discografici?

«I media erano un po’ confusi dall’improbabile presenza del flauto. E anche uno dei nostri manager ci disse che usare quello strumento era una pessima idea. Peccato che il pubblico dimostrasse molto gradimento. Era la cosa più importante, ovvio, e sono andato avanti così».

Ian, c’è una canzone o un album al quale è più legato? Non soltanto per ragioni musicali, ma magari perché le ricorda un momento particolare della sua vita.

«Sì, più di una: “Locomotive breath”, “Thick as a brick”, “Songs from the wood” e “Budapest” sono alcune delle mie canzoni preferite. Tutte abbastanza diverse tra loro, ma in qualche modo originali e iconiche».

Qual è stato, invece, l’album che lei percepisce come il più artisticamente importante per i Jethro Tull?

«Probabilmente il secondo, “Stand up”. Fu il mio esordio da autore più originale e mi diede l’opportunità di introdurre influenze di altre forme musicali».

C’è una canzone di un altro gruppo rock che avrebbe voluto scrivere lei?

«Non ho dubbi: “Hotel California” (il pezzo degli Eagles - ndr).

È più emozionante salire sul palco a vent’anni o a settanta?

«Fare un concerto è come giocare a tennis nella finale di Wimbledon: devi essere sempre concentrato e totalmente impegnato. L’emozione di vincere o perdere sarà grande in ogni evento in cui gareggi, a giudicare dai sorrisi e dalle lacrime che vedi sui volti di quei grandi gladiatori dello sport. Almeno nella musica rock, però, non devi andare in pensione quando hai 35 anni».

Nel 2014 lei dichiarò che i Jethro Tull non esistevano più e disse di voler continuare la sua carriera da solista. Che cosa le ha fatto cambiare idea?

«Alcuni giornalisti hanno equivocato le mie parole. Ho detto soltanto che volevo mostrare il mio nome nelle copertine dei dischi e per i concerti. Per me i Jethro Tull sono tre cose e basta: l’agricoltore del XVIII secolo che ha ispirato il nostro nome, il repertorio di quella musica che ho scritto e suonato tra il 1968 e il 2011, e infine i trentasei altri musicisti della band che hanno fatto parte della mia vita per mezzo secolo. A loro dedico questo tour. “Ian Anderson presenta i 50 anni di Jethro Tull”. Cosa potrebbe essere più chiaro?».

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