La Nuova Sardegna

Pombeni: «Da quelle lotte una transizione di civiltà»

di Costantino Cossu
Pombeni: «Da quelle lotte una transizione di civiltà»

Parla lo storico che ha appena pubblicato il saggio “Che cosa resta del ’68”

22 maggio 2018
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La scuola, il lavoro, la cultura, il ruolo della donna, i diritti civili, la politica: il Sessantotto, di cui quest’anno si ricorda il cinquantenario, mise in discussione ogni singolo ambito della vita sociale. Nel libro “Che cosa resta del Sessantotto” (Il Mulino, 128 pagine, 12,00 euro) lo storico Paolo Pombeni, docente emerito all’Università di Bologna, rilegge un evento che segnò, in Italia e e nel mondo, un momento forte di discontinuità.

Lei sostiene che il Sessantotto è stato una “transizione di civiltà”. In che senso?

«Non il singolo anno del 1968 ovviamente, ma tutto quello che ne è conseguito. Oggi i “centri del mondo” non sono più quelli di prima di allora (non un mondo bi-polare, ma un sistema multipolare), la tecnologia ha mutato i nostri schemi culturali (pensiamo anche solo ai computer),il sistema economico mondiale ha altre polarità, sono riprese le grandi migrazioni fra i popoli con le problematiche conseguenti di convivenza e integrazione fra culture diverse, si stanno dissecando le grandi ideologie che ci avevano convinto di poter dominare l’evoluzione storica».

Quali erano i punti di forza della “pars destruens” del Sessantotto? In che cosa aveva ragione il Sessantotto?

«Il vero punto di forza fu intuire che non si sarebbe potuto capire quel che si preparava senza disporre di nuovi strumenti di analisi. Poiché il loro uso era reso difficile dalla resistenza della presunta autorità di chi deteneva la chiave di accesso ai vecchi strumenti, divenne inevitabile scivolare in una contestazione globale del passato e delle autorità che lo presidiavano. In questa delegittimazione del vecchio autoritarismo senza creatività il Sessantotto aveva profondamente ragione».

Quali invece i limiti, di visione politica e storica?

«Il più grosso limite, tanto sul piano politico che su quello storico, fu sostituire il riformismo con l’ideologia della “spallata”. Credere allo slogan per cui “una risata vi seppellirà” ingenerò l’assuefazione a quell’oppio intellettuale che è l’ideologia della rivoluzione che nasce da sola per partenogenesi e che può essere suscitata semplicemente da una “scintilla” perché tutto è materiale combustile già preparato per l’innesco. Una sciocchezza che ha impedito il maturare di una vera cultura riformatrice e di veri movimenti progressisti. La stessa formula del “secolo breve” inventata da Hobsbawm, tutta legata al ciclo 1917-1989, è figlia di questo modo di leggere il passato alla luce del disincanto degli intellettuali che cedettero alle ingenuità della rivoluzione permanente».

C’è chi sostiene che il Sessantotto, con le sue rivendicazioni libertarie e antiautoritarie, abbia spianato la strada all’individualismo senza regole che ha accompagnato i successivi trent’anni di neoliberismo trionfante.

«Che vi abbia concorso è indubbio, che sia stato determinante ne dubito. Ancora una volta ripeto che il Sessantotto fu più un momento di intuizioni e per così dire di proiezione di aspettative, che non una cosciente pianificazione di passaggi che indirizzassero quei fermenti verso una sintesi positiva per la società nel suo complesso. Che poi la delusione di chi vede sfumare il sogno di una rivoluzione sociale imminente si trasformi in una tendenza a ritagliarsi spazi anarchici per la propria auto soddisfazione non è un fenomeno strano».

In Italia al Sessantotto fu data, dalle élites dirigenti, una risposta prevalentemente repressiva. Perché di fronte alle novità il sistema politico italiano, ieri come oggi, tende a chiudersi, ad arroccarsi?

«Il nostro sistema politico è sempre stato e continua ad essere poco flessibile, senza adeguati meccanismi di ricambio e circolazione delle élites. Di conseguenza gli avvicendamenti avvengono per lo più per momenti di grande rottura: così fu col fascismo, con l’avvento della Dc, con il crollo della prima repubblica e così è oggi nell’attuale scossone alle fedeltà ai partiti sino a ieri dominanti. Nel Sessantotto dunque la risposta repressiva fu una specie di naturale scatto di nervi delle classi dirigenti al potere nei vari settori, incluso quello delle università, Ma ciò che soprattutto va valutato è che anche dopo lo spegnersi dell’ondata ribellistica degli studenti non fu fatto nulla per trarre un insegnamento da quegli avvenimenti».

Sull’evoluzione della sinistra storica in Italia quanto ha pesato, sino ad oggi, il Sessantotto, che da noi è stato lunghissimo?

«La sinistra storica non si è mai veramente ripresa dallo choc di essere stata contestata dai giovani sessantottini e quando ha capito che erano portatori di intuizioni vincenti ha cominciato ad inseguirli, illudendosi di uscire dalla propria crisi monumentalizzando quelle intuizioni, senza svilupparle criticamente. Così gli slogan del Sessantotto hanno finito per modellare l’ideologia e soprattutto la comunicazione della sinistra storica, che non è mai riuscita a fare i conti con questa subcultura movimentista soprattutto perché continuava a credere che avrebbe potuto riassorbire nelle sue fila gli eredi dispersi del movimentismo sessantottino. Cosa che a tratti le riuscì anche, ma senza che ciò fosse un guadagno:il ritorno alla casa madre di un po’ di personaggi formati in quelle lotte non le portò la fortuna che si aspettava».

Ai millennials, ai ragazzi nati dopo il 2000, come consiglierebbe di avvicinarsi al Sessantotto e al decennio successivo, gli anni Settanta, al Sessantotto legatissimi, almeno in Italia?

«I millenials hanno un vantaggio, se vogliono usarlo: sono ormai una generazione che non ha alcun bisogno di continuare sulla strada della “contestazione” del mondo contro cui si battevano i sessantottini, perché quel mondo è ormai defunto. Possono ragionare su una transizione storica che li ha spinti, per usare una metafora, ormai oltre la metà del guado e dunque più che dover giustificare perché sono entrati in acqua, come si fece ai tempi ormai dei loro nonni, devono trovare il modo di raggiungere la riva. Per questo per loro una riflessione sul Sessantotto è un elemento importante. Li aiuterà a ritrovare le ragioni della riforma scartando quelle dell’utopia, li sosterrà nel ripercorrere le ragioni delle “denunce” di quegli anni, ma non per lottare contro chi le nega, visto che sono già stati sconfitti, ma per avviare un percorso di ricostruzione in positivo di tutto quello che è necessario avere per un armonico sviluppo delle persone e delle società, senza che questo rimetta al potere una nuova casta di mandarini. Anche se definire col nome di colte classi cinesi i nuovi signori della rete e dei talk show è assai sproporzionato».



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