La Nuova Sardegna

La lezione immortale di un grande classico

di MARCELLO FOIS
La lezione immortale di un grande classico

L’autore del “Lamento di Portnoy” s’è spento ieri a 85 anni. Nei suoi romanzi una critica radicale dell’identità americana

24 maggio 2018
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C’è un disegno dietro al fatto che Tom Wolf e Philip Roth, immensi scrittori, vicini di casa, quasi coetanei, – del Trenta Wolf, del Trentatré Roth – siano morti a così poca distanza l’uno dall’altro? E che incredibile coincidenza è il fatto che uno dei padri riformatori – i fondatori sono stati altri – del romanzo americano contemporaneo sia morto esattamente lo stesso giorno, il 22 maggio, in cui è morto Alessandro Manzoni? Viene da pensare che ci sia un mondo parallelo delle lettere, un ultramondo di scrittori e poeti che aspirano a simmetrie arcane e che separano il loro essere stati umani, con le debolezze e piccolezze che ne conseguono, dall’essere stati, contemporaneamente, scrittori che hanno cambiato il mondo, con quell’aura di onnipotenza e immortalità che ne consegue.

Per questo, io credo, bisogna stare attenti quando si afferma che Philip Roth è morto. Bisogna cioè dichiarare a quale Philip Roth ci si sta riferendo: a quel maschio alfa, tendenzialmente schivo, vagamente antipatico, difficilmente abbordabile che occupava il mega appartamento al centro di Manhattan; o al padre de “Il lamento di Portnoy” o di “Pastorale americana”? Quei due Roth non sono necessariamente la stessa persona. E questo nonostante la vulgata che vuole l’opera dell’uno incistata nella vita dell’altro. Confondere Nathan Zuckerman, con Philip Roth, per esempio, è un po’ come confondere Marcello Mastroianni con Federico Fellini, perché quanto più cresce la portata dell’autore – e la portata di Roth è incommensurabile – tanto più la distanza tra quello che è e quello che appare è labile, ma questo non significa certo che non ci sia.

Roth è uno scrittore talmente straordinario che tutto quello che scrive appare assolutamente spontaneo, fino a convincerci che non esista alcuno sforzo, alcuna performance. Questa qualità è di pochissimi, Tolstoj e anche Manzoni, per l’appunto. Roth è un classico nel senso più elementare del termine, è la camicia bianca nel guardaroba di ognuno. E’ una griffe, un marchio depositato, come la crema di nocciole e cioccolato o la bibita frizzante. Tutte realizzazioni che sono talmente assodate, talmente presenti nella nostra vita di tutti i giorni, che nemmeno le discutiamo più. Nemmeno ci accorgiamo che qualcuno le ha intuite, progettate, realizzate. Roth nell’ultramondo della Letteratura ha rappresentato una sorta di status quo imprescindibile, fino al punto, passaggio dopo passaggio, da risultare ineludibile persino da parte di quei sedicenti scrittori che non ne hanno mai letto una riga. Molti di costoro infatti, non sanno di averlo letto attraverso le innumerevoli citazioni teatrali, cinematografiche, musicali, che hanno interessato la sua opera in questi decenni.

I classici come Roth costruiscono universi, l’esempio più concreto che mi viene in mente per esprimerne la sua portata è il Salinger de “Il giovane Holden”. Anche in quel caso l’approccio di stabilire un collegamento tra vita reale e vita letteraria risulta fallimentare, perché l’opera immortale di Salinger si è rivelata assai più importante di Salinger stesso, al punto che molti alla notizia che era morto sono restati di sasso perché credevano che fosse già deceduto da tempo. Un grande privilegio creare qualcosa che ci sopravvive già quando siamo ancora in vita. Ci sono autori che alla fine della loro vita sentono il bisogno di tirare le somme, si imbarcano nel pelago di una freschezza troppo ricercata per essere autentica, l’ultimo Moravia per esempio; ce ne sono altri, e Philip Roth è uno di questi, che, giunti in quella stessa stagione, concentrano e distillano. Leggere le ultime opere di Roth: “Everyman”, “L’umiliazione”, “Indignazione”, “Nemesi”, è come sentire gli ultimi meravigliosi quartetti di Beethoven. In quei testi, apparentemente brevi, il lettore potrà saggiare l’efficacia di quella caratteristica fondante di ogni scrittura che abbia istinto di immortalità che Italo Calvino, ne “Le lezioni americane”, chiamava Esattezza. Cioè quella particolare economia del testo in cui il risparmio non consiste mai nell’usare poche parole, ma nell’usare le parole giuste, esatte. Eppure la leggenda metropolitana insiste nel descrivere un uomo amareggiato dal Nobel negato, un uomo in odore di machismo, un irritante reazionario troppo snob per occuparsi del baratro di senso in cui sono precipitati gli Stati Uniti dell’era trumpista. Ma in realtà questo baratro era già stato descritto in ogni riga delle sue opere: era come se il padre a cui ero stato così vicino nel corso di tutti quegli anni non avesse più la minima idea di chi o cosa fosse suo figlio, scrive in un passo di “Indignazione”. E qui appare chiaro come la portata di una frase simile vada espandendosi dal contingente all’universale. E’ sempre un problema di rapporti tra padri e figli, sostiene Roth, e prima di lui Turgenev o Tommasi di Lampedusa. E’ sempre una questione di misurare il mondo attraverso le proprie pulsioni e riuscire a descrivere qualcosa che da privata diventa pubblica, dall’autore al lettore. E’ sempre il coraggio di rappresentarsi nudi, al centro di ogni sostanza, senza appassionarsi all’esercizio della mistificazione. Niente trucchi! Implorava Raymond Carver.

Roth non conosce trucchi, conosce solo un allenamento durissimo, impietoso. Lui ad ogni libro capolavoro sale la scaletta e affronta il trapezio senza rete. Qualcuno riesce in questo magnifico numero circense in cui il doppio carpiato, tra la propria esperienza privata in quanto autore e ogni singola esperienza del lettore, viene eseguito alla perfezione. Anche, se non soprattutto, da questa capacità si stabilisce l’immortalità dell’autore in questione. Dunque: di quale morte parliamo?

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