La Nuova Sardegna

Tessingiu a Samugheo: universi paralleli sotto il tappeto

di Paolo Curreli
Tessingiu a Samugheo: universi paralleli sotto il tappeto

L’attività del tessere. Il lavorio continuo delle donne delle civiltà contadine e pastorali, che aveva inizio con la tosatura delle pecore o la raccolta del lino, la filatura, la ricerca...

21 luglio 2018
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Tessingìu: l’attività del tessere. Il lavorio continuo delle donne delle civiltà contadine e pastorali, che aveva inizio con la tosatura delle pecore o la raccolta del lino, la filatura, la ricerca delle erbe tintorie e quindi la colorazione e infine la tessitura al telaio. Milioni di ore, migliaia di anni perché bisognerà attendere l’avvento dei telai meccanici (l’alba della civiltà industriale) perché la produzione domestica venga completamente sostituita dal commercio dei prodotti realizzati a macchina da lontane manifatture. Come per quasi tutte le cose in Sardegna il mondo arcaico è sopravvissuto parallelo anche nella tessitura, al mondo moderno.

Chi volesse allontanarsi dalle spiagge ormai affollate per scoprire questo universo di bellezza, sapienza e storia fatta di fili, si deve immergere nelle strade, tra l’ocra delle stoppie e i verdi di lecci e vigne, per raggiungere Samugheo. Nel paese dell’Oristanese c’è il Murats, il museo dedicato all’artigianato tessile sardo di cui Samugheo è orgogliosa capitale. In questi giorni si è inaugurata la mostra Tessingiu: il meglio dell’artigianato sardo di oggi nella cornice inaspettata di archeologia industriale della ex cantina sociale. Artigiani del tessile, ma anche dell’oreficeria e della ceramica e poi fabbri e coltellai, maschere e penne. Centinaia di pezzi, da manifatture selezionate, che testimoniano l’ingresso stabile nel contemporaneo dello “stile sardo”. Una maniera, un’estetica, lontana dal “regionalismo” e dalla citazione esotica (in questi esiti alti) ma piuttosto la conferma di quello che sosteneva Costantino Nivola: «Siamo nati moderni». Il grande artista di Orani si riferiva all’essenzialità, alla decorazione sfolgorante ma sempre contenuta nei giusti contesti, all’utilizzo di materiali semplici resi preziosi da una lavorazione meticolosa. «Tutta la bellezza da noi viene dalle donne» sosteneva anche l’artista.

E la scoperta delle testimonianze del laboratorio domestico della bellezza è a pochi passi dalla cantina nel museo Murats che contiene antichi e preziosi manufatti, molte sorprese e qualche insondabile mistero. «Abbiamo un notevole patrimonio che arriva da tutta l’isola – spiega il direttore del museo Baingio Cuccu, storico dell’arte, specializzato in gestione museale –. Una narrazione globale fatta di strumenti e attrezzature oltre che dei prodotti della tessitura». E la guida del direttore è fondamentale per addentrarsi nella spiegazione delle tecniche e nel misterioso universo delle simbologie geometriche, un codice, una scrittura prima della scrittura, che affolla tappeti, bisacce, collari per gli animali e teli per decorare le finestre durante le processioni del Corpus Domini, oppure è un contrappunto essenziale fatto di pochi segni e grandi spazi nella Fressada, sottile coperta-telo e tovaglia o nel sacco del pastore. «Oggetti d’uso – spiega Cuccu –. Lontani dalla nostra concezione di decorazione d’interni». Le bisacce sulla spalla del pastore o sulla sella hanno ognuna una decorazione originale. «Già da lontano si poteva identificare dai colori o dal disegno, chi era l’uomo che la portava e la sua regione di provenienza» una sporta, un sacco ma anche una bandiera un segnale.

Il mistero lo troviamo nei “tapinus de mortu”, drappi funebri che risalgono alla fine del ’700 e all’inizio dell’800 e che provengono tutti da Orgosolo. Sono realizzati al telaio verticale in lana e cotone e servivano per distendere la salma durante i riti funebri. «La particolarità – spiega il direttore Cuccu – è che hanno una decorazione originale che ritroviamo solo in questi manufatti». Sono motivi geometrici, onde che richiamano la simbologia dell’acqua, rombi e losanghe, cervi bicefali che guardano in due direzioni (la vita e la morte?), una danza di figure che reggono recipienti e la doppia testa di cervo. «Sono decorazioni che ritroviamo solo nei tappetti Kilim dell’Anatolia – fa notare Baingio Cuccu –. Se non uguali parecchio simili». E l’Anatolia è una regione della Turchia, il calcolo della distanza dal centro Sardegna è presto fatto, si può pensare a coincidenze dettate dalla tecnica. «Questo è l’aspetto più affascinante – rivela Cuccu –. La tecnica di tessitura è assolutamente identica, sono stati realizzati con una trama particolarmente forte che crea un tessuto liscio, le figure sono estremamente dettagliate perché i confini dei colori sono staccati, tra un colore e l’altro non c’è un filo che li unisca, e che quindi creerebbe una sfumatura, ma piuttosto un intarsio che lascia delle linee adiacenti ma non legate e un segno quindi nitido». Anche il nome Kilim sembra avere la radice dal verbo persiano “distendere” e che lega i tappeti alla preghiera islamica ma che in questo caso potrebbe assumere altri significati.

Si può pensare che per il triste rito venisse scelto semplicemente il tappeto più bello, ma osservando le misure: circa 80 cm di larghezza senza mai superare i 190 di altezza, sembra che questi tappeti particolari siano stati creati proprio per i funerali. Le meraviglie e le scoperte sono ancora tante, la meticolosità delle realizzazioni, delle scelte dei colori e dei decori ancora il segno di un mondo agropastorale capace di creare solo un’ arte domestica ma in grado di regalare, nella sua grande povertà, tanta bellezza al mondo.

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