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Le tonnare di Sardegna nel film di Zoppeddu

di Fabio Canessa
Le tonnare di Sardegna nel film di Zoppeddu

SASSARI. Uomini di mare, concretezza del lavoro e tensione al sacro, racconti di un tempo passato e residui nel presente. Attraverso immagini di repertorio mescolate ad altre girate oggi, “Diario di...

01 novembre 2018
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SASSARI. Uomini di mare, concretezza del lavoro e tensione al sacro, racconti di un tempo passato e residui nel presente. Attraverso immagini di repertorio mescolate ad altre girate oggi, “Diario di tonnara” racconta la comunità dei pescatori di tonno concentrandosi sulla scomparsa di questa tradizione in Sicilia ma facendo riferimento anche alla Sardegna dove invece sopravvive. Prodotto da Istituto Luce Cinecittà con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission, il documentario è stato presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma e oggi sarà proiettato a Cagliari (alle 19 sala Nanni Loy dell’Ersu) all’interno del festival Creuza de Mà. A firmare la regia è Giovanni Zoppeddu.

Nato e cresciuto a Oristano, dopo essersi laureato in Scienze politiche a Cagliari, Zoppeddu ha lasciato l’isola per Roma dove si è diplomato all’Accademia di Cinema Griffith e iniziato a lavorare per diversi documentari. «Da poco meno di tre anni – racconta – mi sono trasferito insieme alla mia compagna in Sicilia e qui è nato mio figlio che è stato il motore da cui è partita la mia curiosità verso le tonnare e la civiltà del mare».

Il documentario è liberamente ispirato all’omonimo libro di Ninni Ravazza.

«Il libro è un tuffo oltre lo specchio, come lo definisce lo stesso Ravazza. Sono state tante le cose che mi hanno colpito, prima fra tutte la forma. Il fatto che fosse un diario mi ha fatto percepire una ricerca intimistica di un universo a me vicino. I personaggi di cui parlava mi sono subito sembrati familiari, ho voluto saperne di più, incontrarli, conoscerli, ascoltarli».

Come entra la Sardegna in un film che nasce in Sicilia?

«La Sardegna è fondamentale nel racconto. È vero che l’opera è incentrata soprattutto sulla Sicilia e che tutto si dipana dal racconto della tonnara di Bonagia, ma se non ci fosse stata la roccaforte di Carloforte sarebbe stato molto difficile descrivere come si è evoluta la tonnara oggi. Per cui fondamentali sono stati il rais Biggio e i membri della sua ciurma che ci hanno dato da subito la possibilità di entrare nella loro attività, dentro la loro ritualità e quotidianità e soprattutto dentro la sacralità e la scaramanzia del loro lavoro. In Sardegna ho ritrovato quello che i vecchi tonnaroti mi raccontavano in Sicilia».

Per le immagini di repertorio che lavoro di ricerca è stato fatto?

«Un lavoro immenso, durato più di un anno. L’archivio del Luce è una fonte inesauribile di immagini e di veri e propri pezzi di storia. Non sarebbe stato possibile raccontare le tonnare senza. La ricerca ha abbracciato tantissimi temi che siamo andati a scovare nel repertorio di immagini dedicate per esempio a feste sacre e profane».

Avete utilizzato materiale di maestri come Vittorio De Seta e Folco Quilici. Come si è approcciato allo sguardo di questi grandi documentaristi?

«È stato fatto un lavoro molto delicato su quelle immagini, si è cercato di integrare il tutto al mio racconto. Io spero di esserci andato in punta di piedi perché rappresentano due maestri fondamentali nel mio percorso di studio. Il loro sguardo cinematografico rende il documentario più poetico e ci aiuta a riscoprire una parte del cinema italiano spesso messa da parte».

Quali sono state le difficoltà al montaggio di lavorare su materiale girato e immagini di repertorio?

«Le difficoltà riguardano proprio il riuscire a integrare il tutto facendo un buon prodotto. Non è stato semplice però il documentario ha potuto contare su uno dei migliori operatori di montaggio dell’Istituto Luce (Luca Onorati). Quindi tanto duro lavoro, ma anche tanta esperienza che ci è venuta in soccorso».

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