La Nuova Sardegna

Sguardi randagi, Faber con gli occhi di Harari

di Guido Harari
Sguardi randagi, Faber con gli occhi di Harari

Esce il volume che il fotografo ha dedicato alla sua amicizia con il cantautore: 300 immagini e alcune perle inedite

06 novembre 2018
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Pubblichiamo un brano dal libro di Guido Harari “Fabrizio De André. Sguardi randagi ( Rizzoli) in vendita da oggi.

* * *di GUIDO HARARI

Nell’estate del 1981 avevo clamorosamente mancato il tour dell’ “Indiano” con Massimo Bubola, Mauro Pagani e gli esordienti Tempi duri di Cristiano De André. La cosa si sarebbe ripetuta nel 1984, per il tour di “Crêuza de mä”. Le corrispondenze dall’America per “Rockstar” e le grandi tournée internazionali mi portavano lontano dall’Italia. Molta musica degli anni Ottanta era sinonimo di uno stupidario che sarebbe stato presto spazzato via dalla rivoluzione linguistica e musicale di Crêuza. Quel disco apriva scenari impensabili non solo alla canzone d’autore italiana, anticipando di qualche lunghezza Peter Gabriel e David Byrne sulla strada di nuove contaminazioni con la “world music”.

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Nel 1983 riabbracciai Fabrizio per la prima volta dopo il trauma del sequestro suo e di Dori. A Milano, una sera di ottobre, proprio nel periodo in cui stava completando “Crêuza de mä” in sala di incisione, improvvisò una comparsata assieme a Cristiano al Teatro Ciak. Qui Mia Martini stava registrando una sorta di addio alle scene, con un album dal vivo a dir poco coraggioso per l’epoca: “Miei compagni di viaggio”, che la vedeva cimentarsi in classici di Kate Bush, Randy Newman, Jimi Hendrix, Chico Buarque e altri ancora, con arrangiamenti arditi. Il bis prevedeva una versione corale del “Pescatore” di Fabrizio. Quando, ad insaputa di Mimì, Fabrizio entrò timidamente in scena, sospinto da Loredana Bertè, Ivano Fossati e Cristiano, per cantare tutti in coro, il pubblico eruppe in un’autentica ovazione. Per Mimì, diversi anni dopo, Fabrizio avrebbe contribuito in incognito alla stesura del testo di “La mia razza”.

Altro tempo sopra tempo e rividi di nuovo Fabrizio, Dori, Cristiano e Pagani, in un ristorante cinese, a Milano, con i grandi capi della Ricordi – Alfredo Cerruti, Guido Rignano e Diego Andò –, a festeggiare il disco d’oro di “Crêuza”. Grandi abbracci e un arrivederci che avrebbe dovuto ancora attendere. Nel 1987 Mara Maionchi della Ricordi mi contattò per realizzare la copertina dell’album di esordio di Cristiano. Pur desideroso di ritagliarsi finalmente uno spazio tutto suo come solista, Cristiano pareva spaesato, a disagio in un meccanismo che mescolava innaturalmente creatività e marketing, e le foto non riuscivano a mentire.

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Nel 1990 l’album “Le nuvole” annunciò, per Fabrizio, la fine di un silenzio discografico durato ben sei anni, con canzoni che cercavano il senso dei tempi che vivevamo con un ritorno a quel “canto civile” che avrebbe bollato a fuoco anche il successivo “Anime salve”. «Ho un percorso con questa bussola che segna emarginazione, minoranza, differenza», aveva detto in un’intervista. Intanto, tra la caduta del muro di Berlino e l’incombente guerra del Golfo, Fabrizio si era definitivamente ricomprato l’infanzia sviluppando sempre più all’Agnata, in Sardegna, la sua nuova attività di agricoltore e allevatore di bestiame. Una scelta che pareva relativizzare le sue responsabilità di artista, verso se stesso e anche il suo pubblico, in favore di un laghetto e una diga da realizzare, qualche nuovo animale da acquistare, e il primo, timido profilarsi di un’ipotesi di agriturismo. Non c’erano vincoli, non c’erano scadenze. Tutto poteva procedere in maniera “organica”.

Quando gli proposi un’intervista per “Rockstar”, chiese di inviargli le domande per iscritto, riservandosi di verificare poi le risposte insieme, di persona. Fabrizio maestro di pensiero? Forse, ma era cruciale, in quel momento di rivolgimenti d’ogni genere anche nella vita politica italiana, dargli voce sui temi più pressanti. La nostra non è mai stata una frequentazione intensa, ma intensi erano stati gli incontri e le conversazioni. Per le poche interviste che realizzammo insieme, Fabrizio si riservò di rispondere per iscritto, onde evitare di deragliare, di essere frainteso e per amor di sintesi. Se le meditava circondandosi dei suoi inseparabili libri-amuleti e dispensando cibo per la mente con piccole perle di saggezza, per poi verificarle insieme al telefono. (...)

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Arrivò presto un invito in Sardegna per realizzare le foto promozionali del disco nuovo. Fabrizio, da sempre spatentato, venne a prendermi all’aeroporto assieme a Dori nelle vesti di autista. Era sera e, quando finalmente arrivammo all’Agnata (in gallurese “angolo protetto dai venti”), rimasi stupito dal verde smeraldo dell’erba, quasi un campo da golf in mezzo alla natura più selvaggia. Dandoci appuntamento al giorno dopo, Fabrizio mi disse: «Fa’ come ti pare: basta che tu mi faccia dimostrare dieci anni di meno». Photoshop non era ancora stato inventato e dunque gli assicurai che avrei piazzato un (per me imbarazzante) filtro flou sull’obiettivo, proprio quello di David Hamilton, il fotografo delle fanciulline desnude, e tanto bastò a migliorare il suo umore. Ma, il giorno seguente, il Münchausen di Gallura volle spiazzarmi: «Lasciamo perdere», disse perentorio. «A che serve darsi tanto da fare per delle foto che non pubblicherà nessuno. E poi scelgono sempre le peggiori!». Enorme fu il panico, mio e del discografico, soprattutto quando dovemmo rassegnarci, una volta di più, all’abitudine che aveva Fabrizio di alzarsi alle cinque del pomeriggio, con tanti saluti alla luce migliore. In capo a tre giorni, rimediammo abbastanza scatti da giustificare il borderò del discografico. Quando arrivò il momento di ripartire per Milano, dissi a Fabrizio: «Non è che adesso facciamo passare altri dieci anni prima che ci si riveda?!». Con un sorriso, mi diede appuntamento ad uno dei concerti dell’imminente tournée.

©20018 MONDADORI ELECTA S.P.A., MILANO
 

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