La Nuova Sardegna

Ossidiana e carbone, la storia dell’isola nelle viscere della terra

di Marco Vitali
Ossidiana e carbone, la storia dell’isola nelle viscere della terra

Da venerdì in edicola “Miniere e archeologia industriale” decima uscita della collana “I tesori nascosti di Sardegna” 

13 novembre 2018
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La tradizione mineraria della Sardegna ha origini antichissime. Uno straordinario patrimonio al quale è dedicato il volume “Miniere, cave dismesse e altri tesori dell’archeologia industriale”, in edicola da venerdì con la Nuova a 8,70 euro oltre il prezzo del quotidiano come decima uscita della collana “Tesori nascosti di Sardegna”.

Sin dalla preistoria sono stati attivi nell’isola numerosi di siti di lavorazione dell’ossidiana, pietra vulcanica la cui presenza fu, presumibilmente, assai rilevante nella primissima fase di popolamento della Sardegna. Intorno a questo minerale vetroso si creò un vero e proprio commercio che interessò, oltre mare, la Corsica, il nord Italia e la Francia. I giacimenti minerari della Sardegna rivestirono un ruolo fondamentale anche nei periodi successivi: le capacità tecniche dei Nuragici nel settore metallurgico sono attestate da diversi siti, si pensi solo alla ricchissima produzione di bronzetti, oltre che di armi. E il patrimonio minerario dell’isola fu senz’altro tra le concause che portarono alla colonizzazione da parte di Fenici e Cartaginesi, soprattutto in alcune zone del Sulcis Iglesiente, cui si interessarono a seguire anche i Romani, i quali diedero grande impulso all’attività estrattiva, che proseguì nel periodo bizantino e in quello medievale, soprattutto a opera dei Pisani. Un calo produttivo si ebbe con il dominio aragonese, poiché gli spagnoli sfruttarono maggiormente giacimenti di altre terre conquistate, mentre con il governo sabaudo l’attività mineraria nell’isola fu rilanciata con l’assegnazione di diverse concessioni e permessi di ricerca.

Alla fine del Settecento furono scoperti i giacimenti di ferro del territorio di Arzana, in Ogliastra, e di antimonio in quello di Ballao, nel Gerrei. Si arrivò così all’inizio dell’Ottocento con una sessantina di miniere attive, destinate soprattutto alle ricerche di piombo, ferro, rame e argento, mentre verso la metà del secolo, attraverso una serie di normative che facilitavano ulteriormente gli investitori, giunsero sull’isola diverse società del continente. E’ soprattutto a partire da questo momento storico che si concentra il volume in edicola da venerdì, per quanto riguarda la parte relativa alle miniere. E sebbene la maggior parte dei gestori provenisse da oltre Tirreno, proprio in questo periodo fu un imprenditore sardo ad avviare una delle fabbriche più rilevanti della storia locale: il sassarese Giovanni Antonio Sanna che nel 1848 ottenne la concessione per i giacimenti di Montevecchio, tra Arbus e Guspini. Alcuni anni dopo nel Sulcis iniziarono le ricerche del carbone, scoperto in precedenza da La Marmora tra il 1834 e il 1846 al confine con l’Iglesiente. Furono rilasciate diverse concessioni tra cui quella per lo sfruttamento del sito di Bacu Abis e si costruirono le prime fonderie della zona. Negli anni Sessanta dello stesso secolo fu scoperta la miniera di zinco di Malfidano, nell’attuale territorio di Bug- gerru, che diversificò l’offerta fino a quel momento incentrata soprattutto sul piombo e sull’argento.

La florida attività del settore, in continua espansione nel XIX secolo, entrò in crisi una prima volta allo scoppio della Grande Guerra, ma la ripresa non tardò ad arrivare: nel 1935 furono costituiti, infatti, il Bacino carbonifero del Sulcis e l’Azienda Carboni Italiani, e dopo la scoperta di diversi giacimenti di questo territorio, tra cui quello importantissimo di Serbariu, venne costruita la città di Carbonia. Una nuova crisi arrivò con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, in seguito alla quale, negli anni Cinquanta, si tentò di rilanciare l’attività estrattiva, ma nel decennio successivo si prese atto di come il declino dell’industria mineraria fosse inevitabile. Fu costituito dalla Regione Sardegna l’Ente Minerario Sardo, che rilevò diversi stabilimenti in crisi, ma con scarsi risultati. Le miniere iniziarono a chiudere una dopo l’altra, tennero ancora fino agli anni Novanta alcuni siti del bacino dell’Iglesiente, come San Giovanni e Acquaresi, grazie all’efficiente pozzo di Monteponi.

Dal 1998 parte del patrimonio minerario sardo è gestito dall’Igea, società partecipata della Regione, che si occupa della messa in sicurezza, della bonifica e del ripristino dei siti minerari oggi divenuti, con i loro preziosi monumenti di archeologia industriale, un’importante attrazione turistica.

Tra i siti dall’ente oggi fruibili troviamo la galleria di Porto Flavia, presso la miniera di Masua, la galleria Henry a Buggerru, la galleria Villamarina, il palazzo Bellavista e la sala compressori, nel complesso minerario di Monteponi, la galleria Anglosarda di Montevecchio, la miniera di Funtana Raminosa a Gadoni e quella di Sos Enattos a Lula. Sempre nel 1998 l’Unesco riconosceva l’alto valore del patrimonio minerario della Sardegna, sulla base di un dossier informativo presentato dai promotori del nascente Parco geominerario, storico e ambientale della Sardegna, che sarebbe stato istituto nel 2001 proprio allo scopo di salvaguardare il patrimonio minerario: strutture industriali dismesse e beni naturalistici.

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