La Nuova Sardegna

«Tra i grandi del Novecento anche Brancaleone Cugusi»

Vittorio Sgarbi
«Tra i grandi del Novecento anche Brancaleone Cugusi»

Del critico arriva oggi in libreria “Il Novecento. Dal futurismo al neorealismo”. Con un capitolo dedicato all’artista di Romana morto prematuramente a 39 anni

21 novembre 2018
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Pubblichiamo uno stralcio del saggio che Vittorio Sgarbi dedica a Brancaleone Cugusi nel volume di “Il Novecento. Dal futurismo al neorealismo”, che esce oggi per La Nave di Teseo (492 pagine, 25 euro).

* * *di Vittorio Sgarbi

Raramente sono stato così entusiasta di poter rivelare e far conoscere un artista vero. La cancellazione di Cugusi dalla memoria interviene perché è morto troppo presto, e durante la guerra; perché non è stato sostenuto, perché non si è ripensato al realismo. È morto, ma ha dipinto nell’epoca giusta.

Non possiamo dire che fosse fuori tempo, perché nel 1942 era consentito a un pittore essere realista senza per questo essere fuori dalla propria epoca. E in questo senso egli ebbe il conforto di due testimonianze, entrambe pubblicate nel catalogo della mostra del 1942 alla Permanente. Nella Zoja, la donna che gli è stata vicino e lo ha visto lavorare negli ultimi anni, scrive una pagina molto bella, nella quale si avverte il senso dell’insoddisfazione che ogni artista ha, esigente con se stesso: «Molti quadri fatti; molti distrutti, relativamente pochi quelli salvati dalla sua incontentabilità. La sua stessa incontentabilità alimentata da uno spirito critico che si accaniva, su un temperamento estremamente personale, la sua stessa dura pazienza a tenersi le opere lungamente per sé, a non cedere a nessun gusto del pubblico, a non derogare da quella che si era prefissa per meta, erano il pegno gettato nel futuro della fede nell’opera sua».

Un critico importante – e molto dimenticato – di pittura dell’Ottocento e del primo Novecento, Michele Biancale, scrive per la mostra della Permanente ciò che vorrei aver scritto io: «Conobbi questo artista, che da poco non è più fra i vivi, circa un anno fa. Piccolo, pallido, smagrito dal male che lo aveva tenuto parecchio in un luogo di cura, mi si presentava come un pittore che aveva bisogno d’una mia garanzia critica, per decidere non per sé, ma i suoi, a lasciarlo continuare nella vita dell’arte. L’ho visto due volte in tutto; e due volte, a una certa distanza di tempo, ho visto i suoi dipinti. Ma in lui era sempre lo stesso ardore e la stessa tenace volontà di superare ogni ostacolo per realizzare compiutamente il suo sogno. Poi non ne seppi più nulla, e ultimamente ho appreso la sua morte. Aveva, prima di morire, firmato un compromesso per questa mostra cui tanto teneva; ed ora essa si apre senza di lui, e i suoi familiari hanno pregato me che l’ho conosciuto di presentare la sua arte al pubblico di Milano. Questo è il breve e doloroso antefatto della presente mostra. Brancaleone Cugusi era sardo; ma errerebbe chi dalla sua regione desumesse un criterio per valutare e classificare la sua pittura. La sua stretta parlata di sassarese lo rivelava di colpo; ma vedete che dinanzi alla sua arte egli non si lascia, fortunatamente, identificare come sardo. Egli aveva vigorosamente rifiutato ogni residuo regionale, ogni suggestione di costume, ogni tradizione di cromatismo locale, ogni abusata caratteristica tipologica. Aveva superato il piacevole, lo screziato, il drammatico, il processionale della sua terra; e anche quando assumeva a motivo dei suoi quadri la Sardegna, come nel quadro Vecchia sarda, egli non si esprimeva in dialetto, ma astraeva il più possibile dai contrassegni regionali, puntando solamente su ciò che nel carattere sardo è specifico di una intensa umanità».

È un discorso che verrebbe di fare anche per Domenico Gnoli, ma sono convinto che, come per Gnoli l’essenza dei particolari, così l’essenza di queste persone, di queste nature morte di esseri umani, sia così compiuta che forse non sarebbe stato giovevole che Cugusi avesse lavorato per molti altri anni.

Abbiamo già un’idea compiuta della sua visione del mondo. Egli applica il metodo caravaggesco e amplifica le ombre con effetti potentemente evocativi e poetici. Perché quelle ombre sono quasi deformi, sono sproporzionate rispetto al corpo che le esprime. Come a far sentire che c’è l’incombere di qualcosa su quelle presenze. Ecco allora un’ulteriore chiave, che è appunto quella di Zurbarán e di Vermeer, la chiave metafisica in cui Brancaleone Cugusi, uomo del Novecento, traduce il realismo di Caravaggio.

© 2018 La nave

di Teseo editore, Milano

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