La Nuova Sardegna

Un mondo di pietra salvato dall’Unesco

di Paolo Curreli
Un mondo di pietra salvato dall’Unesco

Il nuovo Patrimonio dell’umanità, le reazioni nell’isola

01 dicembre 2018
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SASSARI. L’Unesco ha iscritto “L’Arte dei muretti a secco” nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio dell’umanità, ha riconosciuto in questa opera dell’uomo, realizzata con maestria e pazienza, una architettura semplice ma in armonia con la natura che ha permesso di costruire manufatti in quasi tutta l’Europa. Abbiamo sentito le voci di artisti e intellettuali sardi su questo riconoscimento per un segno fortissimo del paesaggio della Sardegna.

Gavino Murgia, musicista che spazia dal jazz, alla classica e al canto a tenore (anch’esso patrimonio Unesco): «Rimango sempre colpito quando vedo queste costruzioni, mi affascina la grande abilità tecnica di chi li ha realizzati e di ancora li costruisce: tanto, tantissimo con poco. Semplicità che sfida i secoli».

Walter Dejana e Renata Fiamma architetti dello studio Dejanafiamma che ha progettato il museo di Cabras per i Giganti di Mont’e Prama: «L’associazione mentale Sardegna-pietra è immediata, per il paesaggio naturale ma soprattutto per le straordinarie opere che l’uomo è riuscito a compiere con la pietra. La stratificazione del tempo ha reso indissolubile il legame tra natura e architettura, rendendo le costruzioni di pietra elementi stessi del paesaggio. Tra tutti: il muro a secco, che letto con uno sguardo attuale diventa un landmark potentissimo e un’espressione estremamente contemporanea di disegno del territorio, che potrebbe essere reinterpretata anche come strumento di esplorazione, il reticolato costruito dei muretti definisce una trama irregolare che avvolge tutta l’Isola e che per noi tiene idealmente assieme luoghi, regioni e comunità differenti. Un limite ma anche un legame. Se si provasse a seguirlo si verrebbe accompagnati quasi all’infinito per valli, prati, boschi e montagne fino ad affacciarsi sugli strapiombi delle scogliere o arrivare al mare. Nella nostra visione non solo come limite ma come collegamento, il muro nella sua verticalità unisce terra e cielo, diventando al tempo stesso un orizzonte artificiale che spinge il nostro sguardo verso l’altrove che cerchiamo qua».

Antonio Marras, stilista, artista e ora anche drammaturgo: «Strisce di pietra incastonate da grandi artigiani, capaci di resistere nel tempo. Trovo un’armonia speciale nella combinazione di pietre piccole e grandi, di vuoti e pieni, una musica della nostra anima che delimita i nostri orizzonti, quelli di cui abbiamo bisogno e che non dobbiamo far oscurare da nessuno».

Alessandro Serra, autore e regista teatrale, il suo “Macbettu”, la tragedia di Shakespeare in sardo, sta raccogliendo successi nei palchi di tutto il mondo, vede così l’architettura delle pietre:

« “Fuorché tra antiche pietre non si cerchino aure in Occidente” diceva Elémire Zolla. Accostare pietre significa dissolvere le auree l’una nell’altra. Lo spazio che se ne ottiene è perciò idoneo al rito, dunque al teatro. Le opere in pietra sono un coro. Ogni pietra, come ogni attore è sola. Ma sola come un tu, mai come un io».

Elena Ledda, voce che è un legame tra la tradizione e il contemporaneo: «Sono costruzioni bellissime, l’importante è che contrastare il cemento. Mi ha fatto piacere l’iniziativa Unesco. Spero che si continui su questa strada, come fu per i tenores, anche per le launeddas e la Sagra di Sant’Efisio, abbiamo bisogno di difendere la nostra identità». Maria Sciola, figlia del grande scultore Pinuccio, animatrice del Giardino di pietra di San Sperate e della fondazione dedicata all’artista: «Mio padre diceva che la Sardegna era la più bella scultura del Mediterraneo. Se qualcuno pensa ad una pietra pensa alla Sardegna, se non la trova qui vuol dire che Dio se l’è tenuta in tasca. La Fondazione è impegnata a tramandare il legame tra la nostra cultura e il megalitismo». Enrico Pau, regista: «Le pietre a secco sono una forma d’arte perfetta, ma questa visione non toglie l’ansia e l’angoscia prodotta dell’epoca di devastazione che sta vivendo la nostra terra. Dove finisce il muretto a secco comincia il blocchetto del non-finito, il disastro industriale. Spero che questa iniziativa dell’Unesco sia un monito perché la bellezza venga salvata dalla bruttezza dilagante».

Non tutti d’accordo però, i muretti a secco evocano anche storie negative. Lo scrittore Marcello Fois: «I muri sono simbolo di un’invasione, non li abbiamo voluti noi ci hanno costretti a farlo. Sono costati sangue e fatica durante tempi bui, quando i ricchi con prepotenza hanno messo a lavorare la manodopera per chiudere le terre. L’agguato da “muretto a secco” è diventato una metafora di pusillanimità, dell’ambiguità di intellettuali e politici, non mi ricordano un valore estetico, come non li trovo una estensione del nuraghe. Dappertutto sono il simbolo della prepotenza feudale». Dello stesso parere il cantautore Piero Marras: «Mi ricordano la triste legge delle chiudende nell’800 e la potente poesia “Tancas serradas a muru. Fattas a s’afferra afferra. Si su chelu fit in terra che l’aian serradu puru”. Sono simbolo dell’individualismo, della corsa alla proprietà, della fine della condivisione il trionfo dell’egoismo come, oggi, il muro eretto da Trump».

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