La Nuova Sardegna

I vecchi di Foghesu 

Guerra e pace: i 105 Natali di ziu Cazzài

di Giacomo Mameli
Guerra e pace: i 105 Natali di ziu Cazzài

Adesso che ha doppiato i 105 anni (passati in famiglia la scorsa domenica in una festa di popolo), zio Vittorio Palmas noto Cazzài racconta davanti a un caminetto con fiamme alte di tronchi di leccio...

22 dicembre 2018
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Adesso che ha doppiato i 105 anni (passati in famiglia la scorsa domenica in una festa di popolo), zio Vittorio Palmas noto Cazzài racconta davanti a un caminetto con fiamme alte di tronchi di leccio i suoi “otto Natali di guerra”. Nel rione-acropoli di ‘Piss'e taccu’ a Perdasdefogu, lo assiste la figlia maggiore Antonietta che, con la sorella Donatella, è fra le custodi di tanto padre 24 ore su 24.

In questa casa calda scorrono immagini della storia, dei Natali tra il 1938 e il 1946, i nomi di sette nazioni, baionette e mitragliatrici, filo spinato e forni crematori, Hitler e Mussolini, shoah, leggi razziali.

Anni senza alberi di Natale, quasi mai il presepio.

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Ne ricordo uno, nel 1941,

combattevo in Croazia

col 55.mo Reggimento fanteria. Eravamo tra Brezovica e Sisak, città con due fiumi. C'ero arrivato marciando a piedi tra Fiume e Trieste. Un soldato di Rovigo era morto per la fatica e lo avevamo sepolto noi, una fossa in un cimitero lungo strada. Era tempo di Natale. L’accampamento croato era gelido. Il 25 dicembre 1943, primo Natale fuori casa, il nostro capitano ci aveva detto che se volevamo potevamo andare alla chiesa cattolica, «ma – ci ordinò quasi urlando – state attenti, ci sono problemi, ci sono gli ustascia, hanno contrasti con la Chiesa Ortodossa, lo dice anche il papa, Pio XII»”. Cazzài va in chiesa con altri tre soldati, due sardi di Thiesi e Ozieri, un terzo di Ravenna. Ricorda:

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La chiesa non era

come quella di san Pietro

a Foghesu, mi sembrava un grande stanzone, basso, poca luce, credo di non aver visto statue. In un angolo, vicino a un altare, il presepe che quasi non si vedeva. Era più povero del presepe di Foghesu: due statuine di legno che raffiguravano la Madonna e san Giuseppe, un piccolo Gesù bambino, quattro pecore pure quelle di legno, e qualche ciuffetto di muschio. Presepe povero in un paese pure in guerra. Il prete aveva parlato ma non avevamo capito una sola parola. Il soldato di Ozieri, che si chiamava Ledda, ci aveva fatto ridere: non preoccupatevi, sta dicendo le stesse cose dei nostri preti, umile capanna, stella cometa, doni dei pastori e re magi. Tutti i preti dicono le stesse cose, sono come certi poeti della gare poetiche: cantano le stesse rime in qualunque palco si trovino”. Tutti gli altri Natali di guerra erano stati “diversi fra loro”. Dipendeva dal luogo dove i soldati italiani si trovavano a combattere. Risentendo Cazzài, uno degli ultimi testimoni italiani di quel periodo nero della Storia, sembra di rileggere le pagine di Giulio Bedeschi in ‘Centomila gavette di ghiaccio’ ma anche nel libro ‘Il Natale degli alpini’ quando il grande medico scrittore veneto scriveva: «Trincee di neve scavate nella neve, e in esse i miei alpini della Julia nella ghiacciaia, a tenere la linea. I russi avevano santificato il Natale venendo all’attacco per sei o sette volte”. Le stesse pagine nel Beppe Fenoglio del ‘Partigiano Johnny’. Ma anche i ricordi di Anna Frank e Etty Hillesum. O i racconti dell’Ultimo natale di guerra di Primo Levi: “Fu un Natale memorabile per il mondo in guerra; memorabile anche per me, segnato da un miracolo. Ad Auschwitz, le varie categorie di prigionieri (politici, criminali comuni, asociali, omosessuali, ecc.) potevano ricevere pacchi dono da casa, ma gli ebrei no”. Scenari di morte in Germania, in Polonia, in Grecia, in Albania, nel mondo. Natali di guerra anche in Sardegna. Carolina Mura, che ha 94 anni e vive nelle case dei figli tra Villagrande, Cagliari e Perdasdefogu, ricorda:

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Pensavamo ai nostri

fratelli in guerra.

Per noi Natale, che chiamiamo Paschigedda, piccola Pasqua, era soltanto la prima frittella cotta nell’olio di lentischio, sentivamo l’aroma per le strade, e sentivamo il profumo dell’arrosto, Natale era la messa di mezzanotte e un bicchiere di vino. Era la festa della prima arancia. Ce la davano i genitori prendendola dall’albero di Pietrino Cabitza suonatore di organetto. Non sapevamo che cos’era l’albero di Natale. Il presepe si faceva solo in chiesa. Mia mamma diceva: Gesù Cristo deve nascere in chiesa non in una casa qualunque”. La guerra non consentiva di far festa per Natale. Federica Melis, maestra in pensione, 96 anni:

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Nasceva Gesù bambino

ma i nostri fratelli, i padri,

i mariti e i fidanzati morivano. Sono morti 28 foghesini nella prima guerra mondiale, otto nella seconda, sono morti Vittorio Lai di Marigosu e Gino Pitzalis che era bellissimo, Beniamino Lai Palonza e Beniamino Lai Porcheddu e altri. No, non potevamo far festa. Natale era un’arancia”. La ‘festa’ c’era stata a guerra finita, nel Natale del 1946, nella chiesa di San Pietro, dove si erano ritrovati quelli che per diversi anni erano stati fuori casa a combattere. Era stato il primo Natale della vita ritrovata. C’erano tutti gli ex soldati ridiventati pastori, operai, contadini. Dal gelo del Don e dalle isbe russe erano rientrati Peppino Carta ‘Coa allùtta’, Pierino Monni e Vittorio Tegas bidelli e cacciatori.

Dal Sudafrica, dov’era prigioniero degli inglesi dopo essere stato in Cirenaica, a Tobruch e aver combattuto nel fronte tunisino, era tornato alla chiesa dov’era stato battezzato anche Pietro Murgia chiamato ‘Strìa’. Dietro l’altare, nel coro e attorno all’armonium, con Franceschino Chillotti, Antonio Lai Culubasciu, Orazio di Massimina Pitzalis, Angiùlu e Pasquale giovani sacristi, si era infilato Mauro Casu che aveva potente voce da tenore e faceva impazzire il parroco, don Federico Mura, che non riusciva a cantare note alte. Mauro era riverito. Tutti sapevano che lui, nel campo di prigionia indiano di Bangalore, aveva imparato l’inglese e aveva incontrato il mahatma Gandhi. Dalla Grecia aveva fatto rientro Mario Demontis mitragliere e porcaro. Da Eldoret in Kenia, dove come ‘Prisoner of war’ viveva in compagnia del sottotenente Edigio Furcas di Escalaplano, era rientrato Orazio Lai, soldato dagli occhi blu. Sotto la piccola statua di Sant’Arcangelo col Serpente si era fermato Antonio Brundu che tornava dal campo d’aviazione di Monserrato dove si era salvato da una bomba di aerei americani caduta sul letto dove dormiva. In quel Natale bianco di neve c’era Vittorio Palmas “Cachedda” che aveva vissuto tra le pianure torinesi e il fronte albanese. Vicino a lui Antonio Lai noto ‘Scòttula’ che scavava trincee in Sicilia. Dalla Germania dei nazisti si erano messi fianco a fianco Vittorio Lai ‘Patata’ che era stato prigioniero a Norimberga e Vittorio Palmas Cazzài che, con la sua croce al merito per cinque consecutive campagne di guerra aveva sofferto anche le pene dell’inverno nell’inferno di Bergen Belsen, il lager dove Anna Frank passava “in fretta i giorni di Natale”. Cazzai si era salvato per due chili, pesava 37, bilancia a 35 lo avrebbero buttato nelle camere a gas. Ricorda il lager, la neve, l’ululato dei lupi. Sembra di rileggere, ancora, Primo Levi: “La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la sentono, lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle”.

E oggi?

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Non mi sembra vero

di essere ancora in vita.

Non ho molto da vivere, lo so. Ma ho un grande desiderio: ci sono ancora tante guerre al mondo, vorrei finissero”.

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