La Nuova Sardegna

LE GEMELLE SCOMPARSE MISTERO TRA DUE ISOLE

LE GEMELLE SCOMPARSE MISTERO TRA DUE ISOLE

L’odio più potente e devastante è quello che nasce dalla decomposizione di un amore. A farlo crescere e a dargli vigore è il virus del rancore, che si alimenta con il vuoto dell’abbandono e con la...

12 ottobre 2019
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L’odio più potente e devastante è quello che nasce dalla decomposizione di un amore. A farlo crescere e a dargli vigore è il virus del rancore, che si alimenta con il vuoto dell’abbandono e con la tristezza della perdita. Una buia alchimia di sentimenti che può produrre il veleno della vendetta, trasformando dolcezza e passione in un desiderio assoluto di infliggere dolore. Sembrerebbe questo il crepuscolo esistenziale di Matthias Schepp, ingegnere svizzero nato in Canada, apparentemente marito gentile e padre affettuoso, morto suicida sotto un treno a Cerignola Campagna, alle 22,47 del 3 febbraio 2011, all’età di 43 anni. Un atto estremo, a conclusione di una fuga apparentemente incomprensibile, nella quale ha trascinato le sue due figlie Livia Clara e Alessia Vère, gemelline di appena sei anni, svanite poi nel nulla. Uccise dal padre? Probabile. Affidate a qualcuno? Possibile.

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L’unica certezza, in questa

incredibile storia

di un amore malato che corre sul ciglio della voragine di un cupo disagio mentale, è la vendetta fredda e lucida di Matthias Schepp contro la moglie Irina Lucidi: andarsene via dalla vita e da lei, lasciandole in regalo un dubbio. Il dubbio più atroce. Se cioè Alessia e Livia sono vive o sono morte. Una condanna a vita a ricordare. E quindi, a soffrire. Ecco perché l’epilogo di questa tragedia non è stato ancor scritto. E così, ciclicamente, quando il divenire del tempo sembra lasciare solo spazio alla rassegnazione, il dramma delle gemelline Alessia e Livia Schepp si riapre, riaccendendo la luce della speranza. Denunce, testimonianze e segnalazioni creano infatti nuove piste, secondo le quali le due bambine potrebbero essere ancora vive. Piste di indagine che portano in Sicilia, in Irpinia, nel lontano Canada e perfino in Sardegna. E poi quelle luci tristemente si spengono. Irina Lucidi, la madre delle gemelline, è condannata a crederci. Dice infatti: «È ragionevole pensare che siano state uccise. Però il nulla non basta. Anche se fossero novantanove, le probabilità. Anche se ne restasse una su cento che le mie figlie siano in un luogo del mondo, magari separate, lontanissime, magari in un paese di cui non conoscono la lingua, magari invece accudite in segreto da qualcuno che amano e dunque persino quiete ormai nel loro dolore, persino in qualche modo serene. Ecco. È quell’unica possibilità che devo percorrere». Matthias e Irina si conoscono nel 2003. Lei, marchigiana di Ascoli Piceno, lavora come avvocata a Losanna per la Philip Morris, la multinazionale del tabacco. Lui, ingegnere, lavora per la stessa azienda, ma a Bologna. Si incontrano in montagna in uno di quei fine settimana organizzati dalla multinazionale per far conoscere i dipendenti. Irina lo ricorda così: «Matthias era bello. Alto, sportivo, biondo. Era gentile e premuroso. La prima volta che l’ho visto mi ha fatto ridere tutta la sera». Lui la corteggia in modo garbato e tra i due nasce una simpatia. Poi, qualcosa di più. «Non ero proprio innamorata - ricorda Irina -, ero leggermente innamorata». Dopo circa un anno lei rimane incinta. Matthias si spaventa, ma poi accetta la gravidanza e i due si sposano e vanno a vivere nella cittadina di Saint-Sulpice, alle porte di Losanna. Le gemelline nascono il 7 ottobre del 2004. Tutto sembra filare liscio, ma Irina comincia ad avere qualche dubbio. Avverte che in quell’uomo c’è qualcosa di strano, qualcosa che le sfugge. Infatti dopo la tragedia ricorderà: «La prima volta che mi sono spaventata, la sensazione di avere accanto un perfetto sconosciuto, è stata un giorno sotto i portici di Bologna. C’era un bambino che mendicava, sporco e con il petto scoperto. Faceva freddo. Mi sono fermata e mi veniva da piangere. Ho cominciato a parlargli. Era così piccolo…. Matthias mi ha tirato per un braccio; “Cosa fai, vieni via”. Gli ho detto: “È un bambino, guarda. E lui mi ha risposto: “Ma cosa ti importa, ce ne sono milioni, andiamo”. L’ho guardato in faccia e i suoi occhi chiari mi sono sembrati vuoti. Occhi da uccello. Pozzi ciechi. È stato solo un attimo. Abbiamo ripreso a passeggiare e a parlare - mi sembra - del film che stavamo andando a vedere. Però io ero distratta da questo fenomeno nuovo che non avevo visto mai. La totale assenza di compassione. Totale, assoluta. Perfetta». Dopo il parto Irina ha un’infezione con un principio di setticemia. Rischia di morire. E Matthias si presenta all’ora delle visite sempre insieme a gruppi di amici, perfetti sconosciuti, e la fotografa nel letto dicendo: «Questa è mia moglie». Non dice mai una volta il suo nome. Molto tempo dopo Irina Lucidi dirà: «Avrei dovuto lasciarlo subito, allora. Avrei dovuto capire che non poteva esserci amore in quel suo mostrarmi senza vedermi». Col passare del tempo Matthias comincia a rivelare una personalità inquietante. Nella vita domestica impone le sue manie e le sue ossessioni: tutto deve essere pianificato e codificato secondo i suoi desideri. La casa viene invasa da post-it gialli nei quali sono fissati orari, impartiti ordini e imposti comportamenti anche per le cose più insignificanti. È un crescendo di prevaricazioni, di violenze psicologiche che, giorno dopo giorno, fanno impallidire l’affetto e sgretolano irrimediabilmente il rapporto. Irina cerca di salvare il matrimonio e la serenità delle piccole Alessia e Livia convincendo il marito a seguire una serie di sedute di psicoterapia di coppia. Matthias accetta dopo molte resistenze, ma solo a una condizione: «Il terapeuta deve essere tedesco». Dopo circa sei anni di vita insieme e dopo un breve percorso di terapia fallito, quando le bambine avevano cinque anni, Irina decide la separazione. Matthias si oppone, ma lei è irremovibile e va ad abitare in un piccolo appartamento vicino alla scuola di Alessia e di Livia. Ottiene anche l’affidamento delle bambine. Lui rispetta gli accordi e lancia continui messaggi alla moglie, invitandola alla riconciliazione e a riprendere la vita matrimoniale.

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Nel dicembre del 2010 Irina chiede il divorzio.

Nell’ultima mail che invia a Matthias, datata 26 gennaio 2011, Irina scrive che i documenti per il divorzio sono pronti. E qui accade qualcosa di irrimediabile: dentro Matthias si mette in moto un meccanismo silenzioso e feroce che lo spinge verso la distruzione e l’autodistruzione. È l’inizio della fine. Per Matthias ormai il futuro non è più una promessa, ma quasi una minaccia. E, come scrive filosofo Umberto Galimberti: «Quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza e inquietudine, allora il “terribile è già accaduto”, perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’energia vitale implode». L’ultimo week end del gennaio 2011 Alessia e Livia devono trascorrerlo con il padre, che passa a prenderle il pomeriggio di venerdì 28. Ricorda Irina Lucidi: «Matthias mi ha telefonato domenica e mi ha detto: non importa che tu venga a riportarle da te stasera, stanno bene, stanno giocando a casa di amici, non preoccuparti. Le porto a scuola io domattina. Tu vai all’uscita. Era il 30 gennaio del 2011. Non le ho viste mai più». Con la sua Audi 6 familiare scura Matthias è già partito con le due figliolette per il suo viaggio verso il nulla. Alle 15,50, infatti, il cellulare di Matthias Schepp aggancia la cella di Morges, un paese a 5 km da Saint-Sulpice. Alle 18,04 passa il confine con la Francia. Alle 18,21, all’uscita dell’autostrada all’altezza di Annecy, invia l’ultimo sms alla moglie, in risposta a quello di lei spedito alle 17,50, nel quale Irina gli chiede di riportare le bambine a casa. In quest’ultimo sms Schepp rassicura la moglie ancora una volta, dicendo che le avrebbe riaccompagnate lui stesso a scuola il giorno dopo. Alle 19,38 Matthias si trova a Lione. Da questo momento spegne il cellulare. Irina sente che qualcosa non va e si precipita a casa di Matthias. Non c’è nessuno. Non resta che avvertire la polizia. E qui, durante la perquisizione della casa, salta fuori un documento che fa presagire sviluppi drammatici: in un cassetto chiuso a chiave viene trovato il testamento di Schepp, scritto in tedesco e datato “Saint Sulpice 27 gennaio 2011”, all’interno del quale Matthias scrive: “qualora le mie figlie Alessia e Livia non siano più in vita…” .

Lunedì 31 gennaio l’ingegnere è a Marsiglia. Qui preleva in alcuni bancomat 7.500 euro e acquista tre biglietti per il traghetto Scandola, diretto a Propriano, in Corsica. Uno è intestato a lui, gli altri due alle figlie Alessia e Livia. Da Marsiglia, spedisce una cartolina raffigurante un coniglio in un prato verde alla moglie, che la riceve il 3 febbraio. C’è scritto: “Ormai è troppo tardi”. Tre testimoni che avevano la cabina a fianco a quella degli Schepp, la 212, sono certi di avere visto le due gemelline. «Ho sentito una delle piccole piangere – ha raccontato una donna –. Poi le ho viste con il padre e mi sono sembrate serene». «Le due gemelline – dice un altro testimone – lo ho osservate mentre giocavano in uno spazio a bordo riservato ai bambini». C’è anche la testimonianza del commissario di bordo che conferma la presenza di Alessia e Livia sul traghetto. C’è infine una signora, Olga Orneck, che dichiara di aver visto Schepp con le gemelline insieme ad una misteriosa signora bionda intorno alle 9,30 del mattino davanti a un bar di Propriano. «Sono sicurissima che fossero loro – dice la Orneck –. Le due piccole stavano mangiando un croissant al cioccolato, mentre l'uomo e la donna bionda discutevano animatamente». La Orneck fornisce alla polizia giudiziaria una descrizione delle due bambine e dell'uomo particolarmente accurata. Addirittura ricorda i vestiti di Alessia e Livia. E Irina conferma: sì, erano vestite così.

E qui comincia il mistero perché la Orneck è l’ultima persona ad aver visto le due gemelline. Matthias intanto prosegue nella sua folle fuga. Arriva a Bastia e si imbarca per Tolone. Il 2 febbraio entra in Italia a Ventimiglia. Il 3 pranza a Vietri sul Mare e infine la sera dello stesso giorno, alle 23,45, si presenta all’appuntamento con la morte, lanciandosi sotto il treno Eurostar Milano-Bari.

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Le bambine scompaiono quindi in Corsica.

In una lettera scritta alla moglie durante il suo incomprensibile viaggio verso il nulla, Matthias scrive: «Sarò l’ultimo a morire e ho già fatto morire le bambine; non le rivedrai più; loro non hanno sofferto e ora riposano in un luogo tranquillo». L’ipotesi più probabile è quindi che Matthias abbia ucciso le figlie. Ma i corpi delle due gemelline non sono mai stati trovati. E poi, secondo molti psichiatri per i quali la patologia dell’ingegnere svizzero era il “narcisismo maligno”, l’obiettivo della vendetta non erano le bambine, ma la moglie. Resta perciò una pur remota possibilità che Alessia e Livia siano vive, che il padre le abbia consegnate a qualcuno. Magari proprio alla misteriosa donna bionda con la quale è stato visto a Propriano. E se questa ipotesi ha un qualche fondamento, allora la Sardegna diventa una possibile strada di fuga. Pochi giorni dopo la scomparsa delle gemelline, giunge una prima segnalazione da Oristano. Al centralino della questura arriva infatti una telefonata: nel bar “La Terrazza” ci sono due bambine bionde che corrispondono alla descrizione delle gemelline Schepp. L’intervento delle forze dell’ordine è rapidissimo, ma non basta: quando arrivano nel locale le due bambine non ci sono più.

Qualcuno dice che fossero insieme a una donna. Dopo nemmeno due mesi, nell’aprile del 2011, ecco una seconda segnalazione. Questa volta qualcuno nota due bambine bionde nel centro commerciale “Le Vele”. Gli investigatori della Mobile visionano i filmati delle telecamere di sorveglianza ed effettivamente due bambine bionde vengono inquadrate per qualche secondo. Ma gli accertamenti diranno che non sono Alessia e Livia. Il terzo avvistamento è di un anno dopo. Esattamente del luglio 2012, a Pula, sempre nel Cagliaritano, ma anche questa volta l'esito dei riscontri della polizia e dei carabinieri è negativo. Nel settembre del 2013 un fatto che riapre le porte alla speranza. Questa volta c’è infatti molto di più di una generica segnalazione. Un avvocato cagliaritano riceve una confidenza da un suo assistito, rinchiuso nel carcere di Buoncammino. L’uomo riferisce al suo difensore di avere sentito alcuni detenuti di etnia Rom parlare di due gemelline arrivate dalla Corsica, che a giugno, erano tenute in un campo di nomadi tra Oristano e Macomer. Il penalista si presenta in procura e riferisce le confidenze del suo cliente, che chiede di restare anonimo per evitare possibili ritorsioni. La magistratura cagliaritana apre un fascicolo e le indagini vengono affidate al sostituto procuratore Alessandro Pili. La segnalazione è molto dettagliata ed è meritevole di un serio approfondimento. È infatti indicata esattamente la località dove sono tenute le bambine e anche nelle mani di chi sono. All’alba del 25 settembre scatta così il blitz dei Ros dei carabinieri nell’altipiano di Bara, vicino a Macomer. Niente. Le gemelline non sono lì. La matriarca della comunità Rom, Vera Milanovich, 15 figli e 27 nipotini si difende: «Viviamo a Macomer da 21 anni, i nostri figli sono nati e cresciuti qui. Per quelle due bambine ci piange veramente il cuore, ma noi non c’entriamo proprio niente». I carabinieri comunque, per scrupolo, estendono i loro controlli anche in altri campi Rom. Come a Nuoro, nella zona industriale di Prato Sardo e alla periferia di Oristano. Tutto inutile. La speranza si spegne. Ma forse l’epilogo di questa triste vicenda non è stato ancora scritto. Un anno dopo, infatti, nel febbraio del 2014, la trasmissione “Chi l’ha visto?” riceve una lettera, spedita da Bari, nella quale un uomo scrive di aver lavorato in una tipografia, dove si stampavano passaporti falsi per un traffico di persone, principalmente immigrati, clandestini e ragazze dell’est. L’autore della lettera sostiene che “le gemelline sono vive e si trovano in Canada (Ottawa città e Lachute)” e termina invitando ad indagare sulla tipografia pugliese. Ma anche qui purtroppo le indagini si arenano.

E Irina Lucidi? La mamma delle gemelline ha creato una fondazione, Missing Children Switzerland, che si occupa di bambini scomparsi. «Le mie gemelline – dice – sono sempre rimaste qui, accanto a me. Ce le ho negli occhi, sulla pelle…». E continua a sperare.



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