La Nuova Sardegna

In edicola con La Nuova il 18 ottobre il libro "Enrico Berlinguer". Intervista a Walter Veltroni

Costantino Cossu
In edicola con La Nuova il 18 ottobre il libro "Enrico Berlinguer". Intervista a Walter Veltroni

Il volume  inaugura la nuova serie della collana "Storia di Sardegna": la biografia, scritta da Riccardo Ferrigato, del segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984

15 ottobre 2019
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SASSARI. Da venerdì 18 ottobre sarà in edicola con La Nuova il volume “Enrico Berlinguer”: una biografia, scritta da Riccardo Ferrigato, del segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984. Del quale abbiamo ripercorso la parabola politica con Walter Veltroni.

Qual è l’eredità politica più importante lasciata da Enrico Berlinguer?

«E’ senz’altro la ridefinizione dei rapporti del Pci con il comunismo sovietico. Da quando, nel 1972, Berlinguer diventa segretario vengono introdotti progressivamente elementi di rottura molto forti rispetto all’esperienza sovietica. Una scelta coraggiosa. Una scelta che, non dimentichiamolo, porterà il leader del Pci a subire un attentato in Bulgaria.

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Cercarono di toglierlo di mezzo. L’idea di un partito comunista che diceva che la democrazia è un valore universale, che dichiarava esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre e che pensava a una via per la sinistra intimamente legata a valori di libertà era per Mosca un fatto gravissimo, intollerabile per un sistema come quello sovietico. Il Pci ci aveva messo molto, prima di Berlinguer, nel sostegno a quel sistema. Sono convinto che se una posizione analoga a quella assunta da Berlinguer fosse stata presa nel 1956, ai tempi dell’invasione dell’Ungheria, la storia della sinistra italiana sarebbe stata del tutto diversa».

Sul fronte della politica interna c’è invece la scelta del compromesso storico…

«Era un tempo della vita politica italiana in cui i due più grandi partiti, Dc e Pci, avevano complessivamente intorno al 70 per cento dei consensi e nessuno dei due poteva governare senza l’altro. Questo fu l’esito delle elezioni del 1976. Va detto che Moro non era per il compromesso storico. Moro era sostenitore della solidarietà nazionale, un’altra cosa rispetto alla strategia del Pci. Confondere le due prospettive sarebbe un errore. Detto questo, è anche vero che entrambi, Moro e Berlinguer, erano consapevoli del fatto che nell’epoca della guerra fredda e del mondo diviso in blocchi sarebbe stato molto difficile, in un Paese di frontiera, di cerniera com’era l’Italia, che si potesse realizzare un governo delle sinistre senza contraccolpi simili a quelli che c’erano stati in Cile. Lavorarono a due obiettivi diversi. In Moro era l’idea di un’esperienza che legittimasse il Pci in vista di una democrazia dell’alternanza pienamente realizzata. In Berlinguer c’era di più l’idea di un percorso da fare insieme che poi sfociasse in una seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista apertasi con la Resistenza».

E poi c’era la scelta di un comunismo europeo, una terza via tra socialdemocrazia e modello sovietico…

«Sì. E anche questo era considerato da Mosca pericoloso e inaccettabile, perché significava la rottura del principio dell’unità del movimento comunista internazionale. Un progetto, quello dell’eurocomunismo, che schierava i partiti comunisti del vecchio continente su un fronte politico che avrebbe aperto tutt’altra dialettica nel rapporto con il blocco egemonizzato dal Pcus. Fu un’altra scelta che comportò una forte tensione con l’Unione sovietica».

Ma anche una visione tutta berlingueriana dell’Europa...

«E un altro elemento di discontinuità. Rispetto a un Pci che non era mai stato particolarmente caloroso rispetto all’idea di Europa, Berlinguer impresse una svolta. Pensi solo al fatto che fu lui a portare nel parlamento di Strasburgo Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell’idea stessa di Europa. Furono davvero tante le scelte di rottura compiute da Berlinguer. E con il distacco storico che oggi è possibile avere rispetto a quell’epoca, appare chiarissimo come ciò che è accaduto con il rapimento e l’uccisione di Moro sia la tragica prova che il leader comunista e quello democristiano avevano ragione. L’esperimento di collaborazione tra Dc e Pci era considerato dai due blocchi, quello atlantico e quello sovietico, intollerabile. Ho sempre pensato che Moro sia stato ucciso dai brigatisti; non ho mai creduto a ipotesi, diciamo così, fantapolitiche. Però penso anche che dal momento stesso in cui Moro è stato rapito è scattata una convenzione tesa a fare in modo che il leader democristiano non fosse liberato».

L’ultimo Berlinguer: questione morale, austerità, femminismo, ambientalismo, una certa idea del rapporto con le tecnologie. Una fase nuova…

«Finito il rapporto con Moro, Berlinguer si preparava a un cammino più lungo e lavorava alla costruzione di un blocco sociale e politico progressista attorno a un Pci che, a quel punto, aveva fatto i conti con la questione sovietica. Da qui la strategia dell’alternativa democratica. Il radicamento sociale del Pci andava ridefinito attorno ai grandi temi del nostro tempo. E quindi la questione morale, l’austerità come elaborazione di un nuovo modello di economia. Ma anche il femminismo e l’ambientalismo. Certo, il periodo più felice di Berlinguer va dall’inizio della sua segreteria nel 1972 sino alle elezioni del 1976. Dopo comincia una stagione più difficile. Però non dimentichiamoci mai, di questi tempi, che sia alle politiche del 1983 sia alle europee del 1984 Berlinguer lascia un partito che si chiamava comunista sopra il 30 per cento di consensi».

Ancora politicamente spendibile quindi l’ultimo Berlinguer?

«Sì, spendibile. Anche se qui c’è un discorso molto più complicato, che riguarda la sinistra italiana, le sue divisioni, la lacerazione tra le sue diverse anime e il dialogo interrotto tra Pci e Psi che ha impedito di costruire in Italia le condizioni di un’alternativa credibile. Purtroppo, alla base c’è l’errore del 1956, che io considero l’errore storico del Pci».

Il Pd: in che modo può essere inserita l’eredità politica di Berlinguer dentro il progetto del nuovo partito?

«Intanto, nel senso di un’idea della politica che sia alta e carica di valori, che oggi non è cosa da poco. E poi, un grande partito che nasce non può tagliare le radici. Non può far finta di essere spuntato sotto un fungo. C’è dietro una storia, dentro la quale troviamo, insieme con le vicende del cattolicesimo democratico, del movimento socialista e dell’ambientalismo, anche il percorso compiuto nel Novecento dal comunismo italiano, che con Berlinguer ha conosciuto il suo momento migliore».

Come può essere giudicata, con gli occhi di Berlinguer, la recente risoluzione del parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo?

«Una semplificazione. La storia non si risolve nelle mozioni dei parlamenti. Il parere espresso da tanti storici è concorde nel distinguere i due fenomeni, che hanno avuto nella storia dell’umanità significati diversi. Naturalmente, fermo restando che la libertà e la democrazia, come diceva Berlinguer, sono valori universali».

Per Walter Veltroni, Berlinguer che cosa è stato?

«La scelta politica della mia vita è stata fatta con Berlinguer e per Berlinguer. Io vengo da una tradizione familiare democratica e di sinistra, ma non comunista. Probabilmente se non avessi conosciuto da ragazzo Berlinguer, se non mi fosse sembrato che ci fosse un segretario del Pci che con convinzione stava portando il suo partito lontano da un sistema come quello sovietico che negava la libertà, le mie scelte sarebbero state diverse. D’altra parte, il Pci prima di Berlinguer era al 25 per cento; con Berlinguer arriva nel 1976 intorno al 34. Significa che Berlinguer riuscì, pur mantenendo l’identità di quel partito, a ottenere il consenso di persone che ne vedevano l’apertura, l’innovazione, il coraggio».

Per lei oggi la parola comunismo che cosa significa?

«Il comunismo è stato una grande utopia che ha mosso i cuori di milioni di persone, un’utopia che aveva al fondo una ragione reale: il riscatto degli ultimi, la costruzione di una società in cui non fossero più le differenze di classe a segnare il corso della vita delle persone. Quando quel progetto si è tradotto in regimi che, in nome di quei giusti valori, hanno negato la libertà, l’utopia si è rovesciata, cambiando il suo significato in maniera inaccettabile». ©RIPRODUZIONE RISERVA

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