La Nuova Sardegna

LO STRANO NAUFRAGIO DELLA NAVE SOVIETICA

LO STRANO NAUFRAGIO DELLA NAVE SOVIETICA

“Solo il mare lo sa” recita un antico adagio marinaresco. Come dire: storie, drammi e tragedie possono essere raccontate in tanti modi o perfino essere nascoste, ma dietro burrasche di parole o...

19 ottobre 2019
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“Solo il mare lo sa” recita un antico adagio marinaresco. Come dire: storie, drammi e tragedie possono essere raccontate in tanti modi o perfino essere nascoste, ma dietro burrasche di parole o dietro la bonaccia del silenzio alla fine esiste una sola verità. E questa verità molte volte resta purtroppo sepolta nelle profondità del mare, là dove l’azzurro si perde in un’eterna notte immobile e fredda.

Così è per la storia del misterioso naufragio della nave cargo sovietica Komsomolets Kalmykii, avvenuto il 31 dicembre del 1974 davanti a Capo Carbonara. Di questa tragedia dimenticata, nella quale morirono nove marinai russi, oggi restano solo pochi ed evanescenti brandelli di ricordi. Nella memoria della gente di mare sopravvive a malapena l’incredibile inefficienza dei soccorsi e il loro assurdo e ingiustificabile ritardo. Del naufragio, e cioè del come sia stato possibile che una nave mercantile di 8.230 tonnellate di dislocamento sia potuta affondare in un mare che sicuramente non era in burrasca, resta invece poco o nulla. Ma soprattutto ci si è dimenticati di cosa fosse stivato nel cargo sovietico. Oltre alle 4.939 tonnellate di profilati di acciaieria e alle 1.735 tonnellate di idrossido di sodio al 98% (soda caustica), c’era infatti una parte di carico della quale non si sa alcunché. Si dice fosse stivata a prua e che fosse già a bordo del cargo prima che questo attraccasse nel porto di Cagliari. Sicuramente era qualcosa che interessava molto al governo sovietico. Per circa tre anni, infatti, unità russe, civili e militari, cercarono inutilmente il relitto della Komsomolets Kalmykii nel mare di Capo Carbonara.

Erano gli anni della ‘Guerra Fredda’. E su quella nave stranamente indagarono a lungo anche i servizi segreti italiani, l’intelligence americana e la Us Navy. Il relitto era però introvabile. Sembrava essere svanito nel nulla. Almeno ufficialmente. Le ricerche furono concentrate in una vasta area nove miglia a est di Capo Carbonara. Cioè a oltre sedici chilometri dalla costa.

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Ci muoviamo

in un quadrante

nel quale si arriva fino a mille metri di profondità” dichiararono gli esperti della Marina italiana. Come dire: trovare la Komsomolets Kalmykii è un’impresa molto difficile se non addirittura impossibile. Sta di fatto che mezzi italiani, americani e sovietici scandagliarono inutilmente su batimetrie anche superiori ai mille metri. Niente, la nave cargo sembrava essere svanita nel nulla. Insomma, un mistero.

La verità è però che non esiste alcun mistero. C’è forse invece un perfido inganno oppure, forse, un clamoroso errore. Sì, perché nel 2008, e cioè 35 anni dopo la tragedia, un subacqueo professionista di Quartu Sant’Elena, Stefano Masala di 34 anni, trova il relitto della nave sovietica. È adagiato sul fianco destro, in un fondale fangoso di appena 118 metri, cioè molto più vicino alla costa di quanto si pensasse. Pare addirittura a meno di due miglia dalle scogliere di Capo Carbonara. Insomma, la Komsomolets Kalmykii era introvabile per il semplice motivo che la si cercava dove non c’era. Ma Masala, titolare insieme al fratello Eugenio della ‘Centro servizi subacquei di Stefano Masala & C’ di Quartu Sant’Elena, si porta nella tomba il segreto del punto esatto in cui si trova il relitto. Perde infatti la vita il 2 agosto del 2008, subito dopo un’immersione a una profondità di oltre cento metri. C’è chi dice che stesse effettuando una ricognizione proprio sulla Komsomolets Kalmykii. Strana coincidenza: muore proprio subito dopo aver scoperto il cargo dei misteri.

Non basta. C’è un’altra coincidenza e questa volta anche più inquietante: il 29 marzo del 2015 muore infatti anche il fratello di Stefano Masala, Eugenio, di 42 anni. Anche lui sub provetto. Si immerge a nord dello scoglio di Quirra, cioè nelle acque del poligono interforze. Il suo compito è quello di recuperare materiale bellico dopo le sperimentazioni. La società di Eugenio ha infatti un contratto con la Alenia Aermacchi, del gruppo Finmeccanica. Il cadavere del sub viene trovato dopo cinque giorni a 70 metri di profondità. La sua morte è un giallo.

La procura della Repubblica di Cagliari apre un fascicolo perché alcune cose non tornano. Prima di tutto è insolito che Eugenio Masala abbia deciso di immergersi in mare di domenica, cioè in un giorno festivo, quando i supporti della base militare sono ridotti. E poi appare strano che un uomo della sua esperienza abbia sottovalutato le condizioni del mare, rese molto critiche dal forte vento di maestrale. Ma è soprattutto l’attrezzatura utilizzata da Masala a suscitare serie perplessità nei consulenti tecnici della procura: non è infatti assolutamente adeguata per un’immersione a -70 metri e uno dei respiratori è addirittura difettoso. Come se non bastasse, l’autopsia dimostra che non c’è acqua nei polmoni. Eugenio Masala non è dunque annegato. L’inchiesta viene alla fine archiviata senza risposte. Resta il fatto che con lui scompare l’unico altro possibile testimone del mistero della Komsomolets Kalmykii.

E forse proprio da qui, da queste tragiche coincidenze, che si deve partire per tentare di capire meglio cosa accadde la sera del 31 dicembre 1974, a sud di Capo Carbonara. Il cemento del dubbio, si sa, tiene insieme i mattoni del sospetto. Proprio quei mattoni che costruiscono un muro dietro il quale potrebbe nascondersi una verità scomoda. O comunque una verità che molti hanno interesse a tenere nascosta.

La Komsomolets Kalmykii, 5.923 tonnellate lorde di stazza e 8.230 di dislocamento, viene costruita nei cantieri navali Zhadanov di San Pietroburgo. Varata nel 1971, l’anno successivo entra in servizio nella compagnia statale sovietica ‘Azov shipping company’ con sede a Kerch, in Crimea. È quindi una nave moderna e dotata della più sofisticata tecnologia navale dell’epoca. Nel suo equipaggio di 36 elementi ci sono cinque donne. Il capitano, Nikolai Ivanovich Sychev, nel 1974 ha 39 anni, ed è considerato uno dei migliori ufficiali della flotta ‘Azov’.

La Komsomolets Kalmykii arriva a Cagliari il 19 dicembre del 1974 e, secondo la versione data dalle autorità portuali, imbarca a Macchiareddu 4.939 tonnellate di tondini di ferro e 1.735 tonnellate di soda caustica in fusti metallici. Il comandante Sychev dichiara di avere già nella stiva di prua oltre 1.500 tonnellate di carico. Non è stata mai chiarita la natura di quel carico e dove sia stato imbarcato. Si parla genericamente di “ferro non lavorato”. Ma è davvero difficile pensare che le autorità russe per decenni abbiano manifestato tanto interesse al recupero di un carico di ferro non lavorato. Basti pensare che una richiesta formale sulla localizzazione del relitto è arrivata addirittura il 26 novembre del 2009. Cioè ben 34 anni dopo il naufragio. Ma un anno prima – e qui ecco un’altra delle tante stranezze di questa storia – qualcuno da Kerch, presentandosi come un parente del capitano Sychev, chiede con una e-mail notizie sulle coordinate del relitto della nave. La stranezza sta nel fatto che il messaggio di posta elettronica arriva qualche settimana prima della divulgazione della notizia del ritrovamento della Komsomolets Kalmykii. È la prova che qualcuno, a distanza di decenni, continua a monitorare discretamente la situazione.

Dunque, il 30 dicembre del 1974 arriva dai vertici della compagnia di navigazione ‘Azov’ l’ordine perentorio al capitano Sychev di riprendere il mare verso il porto di Kerch entro 24 ore. Fonti russe accennano anche a un ordine arrivato da Mosca di anticipare la partenza entro il 31 dicembre. Impossibile in questo caso non pensare a un input politico o addirittura militare. Si tratta di un dettaglio finora sottovalutato, che non può non allungare nuove ombre sul carico misterioso stivato a prua della nave cargo. Il capitano Sychev accelera quindi i tempi di imbarco delle merci e la mattina del 31, intorno alle 13, la Komsomolets Kalmykii molla gli ormeggi e salpa verso Kerch. Secondo le versioni ufficiali – cioè quella italiana e quella russa – quell’ordine categorico di anticipare la partenza sarà fatale per il cargo sovietico, perché, nella fretta, il carico di ferro non sarebbe stato fissato adeguatamente. Perciò, doppiato Capo Carbonara, nel mare agitato il carico si sarebbe poi spostato, sfondando la fiancata di tribordo della nave. C’è però un piccolo, grande interrogativo: nessuno ha mai verificato a quale altezza, rispetto alla linea di pescaggio, si trovasse l’interponte nel quale erano stati caricati i tondini di ferro.

Dopo il disastro, sia le autorità italiane che quelle russe dichiareranno che soffiava un forte vento di maestrale e che il mare era valutato in forza 6. E qui ecco emergere un altro serio elemento di dubbio. Spulciando gli archivi meteo, infatti, si scopre che quel giorno c’era sì un vento di maestrale, ma che sua velocità era di appena 25,9 chilometri l’ora. Nella scala Beaufort si tratta di un vento di categoria 4 che, nella scala Douglas, corrisponde a un mare forza 3, tendente a 4. In estrema sintesi: il mare era mosso, ma sicuramente non c’era una burrasca.

Alle 14.45 la Komsomolets Kalmykii lancia il segnale di richiesta di soccorso. Ma nessuno risponde all’Sos. È interessante riportare la versione russa sull’incomprensibile inerzia della capitaneria di porto di Cagliari, che porterà nel 1980 all’incriminazione del comandante della capitaneria Bruno Sassu, per omicidio colposo plurimo:

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Il mayday

è stato interpretato

come un messaggio di auguri per il Capodanno. Una specie di scherzo». Ma è davvero incredibile quello che raccontano poi i russi sui soccorsi. La nave è già inclinata di 40 gradi a tribordo e imbarca acqua. Si cerca di calare una scialuppa, mentre alcuni membri dell’equipaggio si gettano in mare. L’acqua è fredda: circa 11 gradi. L’agonia della Komsomolets Kalmykii dura appena mezz’ora: poco dopo le 15 si inabissa con il suo capitano.

Nove marinai del cargo russo, a bordo di una scialuppa seriamente danneggiata e che rischia di affondare, raggiungono miracolosamente la scogliera di Capo Carbonara intorno alle 18, quando ormai è già buio. Uno di loro, nonostante sia ferito, si trascina faticosamente su per il ripido pendio, tra rocce e cespugli, fino a raggiunge il faro. Qui viene accolto da alcuni uomini armati di mitra. Dopo infiniti minuti di tensione, il marinaio russo riesce a spiegarsi e far capire il dramma che si sta consumando in mare. Il guardiano del faro avverte così telefonicamente la capitaneria di porto di Cagliari del naufragio della Komsomolets Kalmykii.

Ma neppure quella telefonata sembra mettere in moto un meccanismo dei soccorsi adeguato alla gravità della situazione. Solo alle 18.30 , infatti, lascia il porto il rimorchiatore Vigore, al comando del sottotenente di vascello Marcello Sanna. È un’imbarcazione lenta, non attrezzata per le operazioni di soccorso e, soprattutto, non c’è personale sanitario a bordo. Resta senza risposta una domanda: chi erano quei militari armati al faro di Capo Carbonara?

Il Vigore arriverà sul luogo del naufragio solo dopo le 20, cioè quando molti marinai della nave sovietica sono in acqua ormai da cinque ore e il filo che li lega alla vita è ormai sottilissimo.

In un post pubblicato il 3 giugno 2009 su VKontakte.com, il Facebook russo, viene riportata la drammatica testimonianza di Marcello Sanna, il comandante del Vigore. “Quando siamo arrivati – dice il sottotenente di vascello – il mare sembrava brillare nella notte. I nostri riflettori illuminavano i giubbotti di salvataggio, molti dei quali galleggiavano ormai vuoti. E dalla profondità del mare arrivava il bagliore della nave affondata”. E questo è un passaggio fondamentale, perché prova che la Komsomolets Kalmykii, affondata cinque ore prima, non si trovava su un fondale molto profondo. Le luci della nave morente arrivavano infatti fino alla superficie.

Commovente il racconto del disperato tentativo di salvare una marinaia che non riusciva ad afferrare un salvagente lanciato dal rimorchiatore. Stremata, la donna viene alla fine afferrata per un braccio. Però il braccio si spezza e lei ricade in mare. Alla fine, dopo molti tentativi, viene issata a bordo.

“Le ho messo addosso una coperta asciutta e le ho dato un bicchiere di whisky – dice Sanna –. Poi mi sono allontanato per assistere un altro naufrago. Quando sono tornato da lei, era morta. Era molto bella e perfino la morte non aveva rovinato la sua bellezza… non sapevo neppure quale fosse il suo nome…”.

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Quella donna si chiamava

Lyudmilla Bunina

e aveva 39 anni” scrive l’autore del post su VK che, pur senza rivelarlo, sembra essere un parente di uno dei naufraghi della Komsomolets Kalmykii.

Resta da chiarire perché le ricerche della nave siano state concentrate su una zona lontana da dove è avvenuto il naufragio. Viktor Smykowsky, vice comandante della nave Romny della compagnia Azov, inviata a Capo Carbonara per le ricerche del relitto della Komsomolets Kalmykii, ha raccontato ai giornali russi: “La compagnia di navigazione ci aveva assegnato il compito di chiarire le coordinate della nave affondata e cercare di trovare il corpo del capitano Sychev. Usando come punto di riferimento macchie d’olio e oggetti galleggianti, abbiamo approssimativamente determinato la posizione della nave a una profondità di circa mille metri, a nove miglia da Capo Carbonara”.

La scoperta di Stefano Masala ha provato che quelle coordinate erano clamorosamente sbagliate di ben sette miglia. Cioè di 13 chilometri. La spiegazione dell’errore può essere molto semplice: Smykowsky con la Romny è arrivato quattro giorni e mezzo dopo il naufragio e quindi si è dovuto fidare delle indicazioni dategli da chi già conduceva le ricerche. Molto probabilmente c’era chi non voleva che i russi ritrovassero la loro nave. Il perché? Forse la risposta è in quelle misteriose 1.500 tonnellate di carico stivate a prua del Komsomolets Kalmykii. Un mistero ancora irrisolto. Per concludere, un’ultima domanda è lecita: ma a causare l’affondamento della nave è stato davvero lo spostamento del carico? L’unica risposta possibile è nell’analisi dello scafo. Che però non si trova. E chi sapeva dove cercarlo è morto.



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