La Nuova Sardegna

Alghero

La crisi e la burocrazia mandano a fondo la piccola pesca

di Pier Luigi Piredda
La crisi e la burocrazia mandano a fondo la piccola pesca

Il dramma delle piccole aziende del Nord Sardegna: «Ogni cattura va annotata per la tracciabilità del prodotto e il settore già in crisi affonda. I nuovi regolamenti favoriscono le multinazionali» - VIDEO - FOTO

21 febbraio 2013
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ALGHERO. «La burocrazia rischia di ammazzare la pesca. Tutti questi nuovi regolamenti sembrano fatti apposta per farci arrendere e lasciare il mare, il nostro mare, alle multinazionali della pesca. Ma noi non molleremo, anche se è assurdo che al rientro da una dura giornata di pesca si debba compilare una scheda nella quale il dentice si chiama “dec”, il cappone “gun”, la seppia “ctc”, il polpo “occ” e così via. Dicono che serve per la tracciabilità del pescato e quindi per la qualità, ma così stanno complicando la nostra durissima vita in mare».

Giovanni Delrio è pescatore da una vita. E anche se ha ormai superato i 60 anni non ha alcuna voglia di lasciare la barca in secca e sedersi sulla banchina ad aspettare le barche che rientrano cariche di pesce. Lui il pesce continua a pescarlo tutti i giorni e quando è a terra s’impegna per difendere la sua categoria. Una battaglia contro la burocrazia. La sua barca è stazzata sotto il tonnellaggio che non lo obbliga a usare il “tablet” a bordo per comunicare il pescato ancora prima che arrivi in porto, ma deve comunque farlo sugli stampati che ha predisposto e diffuso anche tra gli altri pescatori algheresi per cercare di semplificare le procedure. Così come ha stampato in decine di copie la fantomatica e ormai fondamentale “Guida per gli operatori della pesca” che tutti devono avere a bordo visto che contiene i micidiali codici Fao Alpha3 delle principali specie ittiche del Mediterraneo. Ma dopo tanta burocrazia, ormai è arrivato anche per lui il tempo di tornare in mare.

Nel buio si sente soltanto il rombo di un motore, poi s’intravvede una luce che si muove lentamente sulle acque ferme del porto. L’appuntamento è alla Banchina Sanità dove c’è la sede della Cooperativa pescatori e li “l’Etna”, un peschereccio di oltre 11 metri, si appoggia con dolcezza al molo per far salire l’equipaggio. Sono le 6 del mattino. È ancora buio pesto, le uniche luci sono quelle dei lampioni della città che ancora dorme e i fari rosso e verde all’ingresso del porto. Giovanni Delrio è un pescatore esperto, conosce il mare di Alghero come le sue tasche e il porto come le camere della sua casa. Il fratello Peppe assapora la prima sigaretta della giornata, il nipote Tore Angius è euforico, nonostante la levataccia. Per l’equipaggio dell’Etna è il primo giorno di pesca. Il tempo è ancora brutto, ma la barca è stata armata, l’equipaggio registrato alla Cassa marittima e allora bisogna uscire a pescare. Anche perché il meteo regala due o tre finestre di bel tempo, che non si possono perdere in questi tempi di crisi. Comunque, fa freddo. Tanto. Con i tre pescatori stiamo rintanati nella cabina dell’Etna. A guidarci fuori dal porto è il Gps che traccia il percorso. Lasciamo l’isolotto della Maddalenedda e mettiamo la prua a ovest. Il mare è lievemente increspato da un leggero grecale. Appena fuori dal porto c’è un gozzo che recupera i tramagli calati poche ore prima. Navighiamo nel buio, aiutati dalle nuove tecnologie: l’Etna è un peschereccio datato, ma in ottime condizioni che Peppe Delrio ha acquistato per la pesca dell’aragosta: un ritorno alla tradizione di famiglia dopo essere stato, negli Anni Settanta e Ottanta, il precursore degli attuali fast food e paninerie: con il socio Tonino Caria aveva fondato e gestito il famoso «Jamaica” nel cuore del centro storico di Alghero.

Le reti, i pescatori le hanno calate la sera prima. Alcuni chilometri di rete leggera a maglia larga per evitare la cattura di pesci piccoli e in fase di crescita. Giovanni Delrio è una sorta di leader dei pescatori algheresi, una tradizione di famiglia che si tramanda di padre in figlio: da Salvatore a Giovanni e Peppe e adesso al nipote Tore Angius, figlio di una sorella, studi all’università accantonati per seguire la passione e un futuro duro ma affascinante.

Il gps ci porta sul primo segnale quando è ancora buio e quindi il freddo è ancora intenso. I tre pescatori indossano le cerate arancioni, infilano i guanti e gli stivali e cominciano la loro giornata di lavoro. Sono le 6,45. Le cime della rete legate al segnale vengono fatte passare nel verricello che comincia a girare. La rete sale lentamente. Vuota. Così per oltre 10 minuti. Il primo pesce è un bel pagello. Poi ancora metri e metri di rete vuota, appesantita ogni tanto da qualche pietra: «Vedi che cosa fanno le reti a strascico?», sottolinea Giovanni con amarezza. Poi arriva un bel polpo che si libera da solo dalle maglie della rete e comincia a passeggiare nel pozzetto della barca. Quando il sole spunta dalle colline di Scala Piccada, il lavoro in barca diventa più piacevole e l’umore migliora con l’arrivo di alcune seppie che “sparano” inchiostro dappertutto. Ma è una gioia di breve durata. «L’acqua è ancora troppo fredda e il pesce è fermo – spiega Giovanni Delrio –. Forse pescheremo qualcosa in più con le reti sotto costa, ma questo è un periodo difficile e bisogna accontentarsi. Chissà che riusciamo almeno a recuperare i soldi del carburante».

Ormai il sole sta scaldando la giornata e sotto le cerate si comincia a sudare, mentre la rete sale veloce. Sempre vuota. Peccato. L’unica gioia è il panorama mozzafiato dello sperone di Capo Caccia che si tinge di arancione e il grecalino gelido dell’alba che si attenua fino a scomparire dopo aver ripulito il cielo dalle nuvole.

Ecco due razze, qualche cappone, alcuni pagelli mangiati dalle pulci di mare e quindi invendibili, un altro pesce mangiucchiato dai delfini e poi finalmente diverse seppie di grandi dimensioni e due bei dentici. Poi più nulla. «Ma va bene lo stesso, non è granchè ma è la prima uscita – sottolinea Giovanni Delrio, mentre il fratello Peppe e il nipote Tore continuano a togliere con cura il pescato dalle reti, che poi vengono sistemate con arte per evitare che si ingarbuglino e per poterle calare di nuovo senza problemi –. E adesso inizia il bello». Dal gavoncino sotto il timone il pescatore tira fuori una borsa che contiene i documenti indispensabili per poter consegnare il pesce in pescheria ed evitare noie con la Capitaneria di porto.

Prima compila le targhette da sistemare sulle cassette del pesce, che dovrà essere accuratamente diviso per specie e poi lo stampato da consegnare in Capitaneria, nel quale vanno riportate tutte i dettagli della pesca e le sigle del pescato.

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