La Nuova Sardegna

Nuoro

Menhir, un rap ad alto voltaggio

Walter Porcedda

È appena uscito il nuovo album della nota formazione nuorese

27 settembre 2007
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CAGLIARI. La cultura della musica contro quella dei bar. Colpisce forte e mira in alto il nuovo album della crew nuorese dei Menhir. Intitolata semplicemente con il nome della formazione, messa su nel 1997, e frutto di una fusione dei due gruppi storici dell’hip hop di Nuoro, i War e gli Smp (con una storia che rimonta fino agli anni 80, periodo dei primi vagiti del rap made in Sardinia), «Menhir» - prodotto da Michele Palmas per l’etichetta S’Ard - è un’opera che non passa inosservata.

Musica e rap ad alto voltaggio, contenente quattordici tracce che scivolano con piacere sul piatto, quasi una summa del lavoro di un gruppo con un solido retroterra nel pianeta funky, curioso per le ascendenze da “old school”, fedeli alla linea insomma da “b boys” sinceri e competenti nelle manomissioni e nelle citazioni, come nel rappare, ma anche fortemente aperti al confronto. Dietro i Menhir di Momak e Kappa insomma c’è una cultura musicale a trecentosessanta gradi che permette di scrutare anche al di là del filone, pure robusto dell’hip hop regionale, aprendosi con intelligenza ad altri territori.

Si percepisce cioè tra queste tracce - anche se all’ascolto non esiste una omogeneità di fondo, segno comunque di una ricerca ancora in corso - una visione originale del meltin pot musicale. Che mette a contatto, e in qualche caso in corto circuito, culture e mondi diversi. Dal soul a denominazione d’origine controllata alla musica etnica sino al jazz. In particolare i suoni e i riferimenti etnici sono, per una volta, non espediente di riconoscimento ma vero e proprio elemento costitutivo del processo creativo e musicale. Che si nutre di testi impegnati e assai credibili che parlano del nostro tempo con un attacco robusto ai miti del berlusconismo e della vita facile dell’Italietta televisiva. Critiche e denuncia, ma anche passione per la vita, l’amicizia e la vita di strada.

 In pratica - come già è avvenuto anche per altri rappers sardi - mentre nel loro rappare si trasferisce idealmente la cultura dei nostri poeti improvvisatori, dal lato musicale prende corpo una sperimentazione feconda di elementi dal segno diverso. Insomma, i Menhir riescono ad avere un sound inconfondibile. Nella voce come nella musica. Le voci sono forti e dal suono gutturale (ricordano quelle dei tenores) mentre sciorinano in nuorese rime affilate come rasoi con un senso del ritmo perfetto. Da rendere così anche la lingua usata, il sardo nella variante barbaricina, incredibilmente efficace e di inattesa musicalità all’ascolto.

 I pezzi sono popolati di benas e trunfas, di launeddas e campionamenti (bellissimo in «Sardinia» quello di Elena Ledda in «Cantu a dillu») che trasferiscono un profumo di terra nostra. Ma senza strafare. Lontani dal folclorismo come dalla ricerca del bell’effetto questi elementi non sono dei semplici”insert” ma efficaci punti di appoggio di una solida architettura. Assolutamente da segnalare poi i brani in cui si affaccia il jazz con gli interventi raffinati - e anche in bella relazione osmotica con la crew - del sassofonista Gavino Murgia che fanno volare alto la musica dei Menhir.
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