La Nuova Sardegna

Alcoa, prima gli scontri per strada, poi l'intesa. Napolitano telefona a Cappellacci e agli operai

Umberto Aime
Alcoa, prima gli scontri per strada, poi l'intesa. Napolitano telefona a Cappellacci e agli operai

Nell’incontro ufficiale è stata raggiunta una prima intesa tra governo, azienda e sindacati: fabbrica aperta fino ad agosto, stipendi fino a dicembre, le offerte di acquisto ci sono. Susanna Camusso a Cagliari: «Sono vicina agli operai»

28 marzo 2012
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Il presidente della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci, ha ricevuto una telefonata del capo
dello Stato dopo l'accordo raggiunto in nottata al Mise sul futuro della fabbrica di alluminio dell'Alcoa di Portovesme (Sulcis). Giorgio Napolitano, che ha seguito passo dopo passo
gli sviluppi della vertenza e nella giornata di ieri è rimasto in contatto con il ministro dello Sviluppo economico, ha chiamato anche i rappresentanti degli operai Alcoa.
L'accordo con lo stop ai licenziamenti e l'ok al fatto che gli stabilimenti continuino a funzionare almeno fino ad agosto in attesa della vendita, è stato raggiunto nella tarda serata di ieri. Prima, è stata una giornata di grande tensione.

La polveriera è esplosa. In via Barberini, a metà della «corsa». Lì dalle ali estreme del corteo degli operai Alcoa, sbarcati in quattrocento, sono volati bastoni, lattine, petardi e bombolette-proiettile. Una grandinata violenta, dolorosa, certo inutile, da evitare, ma chi è all’inferno si sente dannato e perdere il lavoro è un dramma: dov’è il peccato capitale? Sono le dieci del mattino, è l’ora della svolta per la marcia di chi vive disperato da mesi. In duemila rischiano di essere sbattuti fuori, licenziati, dalla multinazionale americana decisa a non pagare le multe europee e ad abbandonare il Sulcis e la Sardegna all’agonia.

È un attimo, accesa la miccia, arriva il botto di matrice anonima, in mezzo a chi è avvolto nelle bandiere del sindacato, dalla Fiom-Cgil, dalla Cisl, alla Uil, ai Cub. E fino a quel momento è stato compatto seppure con i nervi a fior di pelle dietro lo striscione «Siamo la Sardegna, vieni con noi per vincere» e al tamburino con indosso la canotta più dura della processione da Olbia, imbarco al porto, e poi da Civitavecchia alla Stazione centrale, a via Barberini: «Noi puzziamo di sudore, voi del sangue degli operai». All’improvviso, un lampo. È quando da chissà dove, qualcuno lancia lo stantuffo di una tromba scarica e allora rinforzato con due bengala-sputnik. La palombella del «pacco volante» sfiora tre, cinque crocicchi, e senza che il bersaglio possa far nulla, la vampata e le schegge schizzano a dieci centimetri dal viso del capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Giampaolo Diana, impegnato a calmare gli animi. Il boato lo fa vacillare, le schegge sono una rasoiata al naso. Colpito e ferito, Diana, poi subito il sangue, i fazzoletti per tamponare, comparsi come altre bandiere fra la gente messa subito alle strette dalla carica, improvvisa e decisa, delle forze dell’ordine.

Con quella cicatrice fresca di battaglia, scortato dagli operai, il consigliere regionale arriva fino allo scalone del ministero dello Sviluppo economico. Il capogruppo si riprende, e alle 10.30 entra da eroe a far parte dell’infinita delegazione, giunta regionale, parlamentari e sindacalisti, arrivata per trattare col governo e Alcoa. Per un vertice convocato d’urgenza, l’inizio della procedura «fuori tutti» è fissato fra otto giorni. Chi è stato chiamato al capezzale della fabbrica comincia a discutere, prova a spezzare le catene. Gli altri occupano via Molise, che è budello e uscita di servizio del ministero. Circondati a monte e a valle dai cordini di sicurezza — cento fra poliziotti e carabinieri, stipati in dieci furgoni blindati — gli operai diventano un muro: è il loro sit-in. Sono cori da stadio, canzoni di protesta, ancora petardi, assordanti e potenti, alternati ai caschi sbattuti sui sanpietrini, sul travertino, sulle serrande. È una bolgia, fra fuochi d’artificio, rabbiosi ma non cattivi, perché chi grida «un operaio, una famiglia» cerca un appiglio che è salvezza, non vendetta.

La grancassa va avanti per altri novanta minuti. Poi, a mezzogiorno, la polveriera si gonfia di nuovo, esplode ancora, stavolta innescata dai bollettini, pessimi, in arrivo dal vertice. Prima gli operai bruciano le schede elettorali, poi in due provano a fare un falò del Tricolore, subito spento dai più anziani, che sono saggi nel dire: «Non è questa la bandiera che dobbiamo bruciare». L’onda schiuma e, passo dopo passo, tenta anche di sfondare e occupare il piano terra del palazzo. Tentativo respinto, a fatica, dagli agenti in assetto anti-sommossa. Sono assalti a mani nude, scanditi da «noi non molliamo, niente cassa integrazione, mai licenziati, la fabbrica deve vivere».

Non mollano la presa, gli operai, pretendono giustizia, vogliono che il governo alzi la voce con gli americani e la giunta regionale non esca a mani vuote. Sono instancabili e incazzati, quelli dell’Alcoa. Così tanto che sono decisi a tirar su le tende sotto il balcone del ministro Passera. Ma non succederà: con una saggia decisione la partenza della nave da Civitavecchia viene posticipata di un’ora per attendere il risultato del vertice: che sarà buono e convincerà gli operai a tornare a casa
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