La Nuova Sardegna

Alcoa, la vendita ora è a rischio

di Erminio Ariu
Alcoa, la vendita ora è a rischio

I tedeschi di Aurelius non inviano le garanzie richieste. Sconcerto del sindacato

18 luglio 2012
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PORTOVESME. Si complica il negoziato per la cessione dello stabilimento Alcoa. L’attesa lettera di intenti del potenziale nuovo acquirente, la tedesca Aurelius, non è ancora arrivata: i tempi stringono perchè i vari soggetti coinvolti nella vertenza si erano accordati al ministero dello Sviluppo economico con l’impegno all’acquisto entro luglio. Ieri la doccia fredda, quando l’accordo sembrava cosa fatta. Durante un incontro in fabbrica con i sindacati e i lavoratori, l’amministratore delegato di Alcoa, Giuseppe Toia, ha comunicato che la lettera di intenti non c’è: la società tedesca non ha infatti accettato le garanzie chieste dalla multinazionale americana – frutto delle intese istituzionali raggiunte al Mise – affinchè i fondi messi a disposizione rimangano allo stabilimento di Portovesme. Si tratta di risorse per coprire due anni di cassa integrazione e un anno di mobilità che Alcoa ha garantito ai tavoli ministeriali. Il gruppo tedesco, secondo quanto si è appreso, avrebbe invece chiesto di avere le mani libere. «Abbiamo detto chiaramente ai nostri interlocutori che a queste condizioni Alcoa non ci può stare - spiega Alessandro Profili, responsabile relazioni istituzionali di Alcoa Europa - non possiamo dare il via libera ad una cessione irresponsabile. Ci siamo impegnati con il Governo, la Regione, gli amministratori locali e sindacati a condurre una trattativa, e possibilmente a chiuderla, salvaguardando integralmente lo stabilimento e il personale di Portovesme. Il negoziato, però, non è ancora fallito - sottolinea il manager - ora a palla passa dall’altra parte del campo. L’auspicio è che si possa chiudere, naturalmente alle condizioni concordate con il governo». Comprensibile lo stupore del sindacato che ieri ha incontrato i massimi vertici aziendali, tra cui lo stesso presidente dell’alluminio primario europeo Tomas Sigurdson. La multinazionale americana pretende, per non mandare allo sbando i cinquecento diretti e gli altrettanti operai dell’indotto, un piano industriale accettabile, certezze finanziarie, garanzie occupazionali per tutto l’organico, compreso quello delle imprese di appalto, e una continuità produttiva per almeno un triennio. Allo stato attuale Aurelius non ha ancora ottemperato a queste richieste e non ha ancora inviato la lettera di intenti. Operazione, quest’ultima, che dovrà avvenire entro le prossime tre settimane pena l’avvio delle contromisure di Alcoa che, a suo tempo aveva posto come termine ultimo per superare le fasi preliminari della trattativa, il mese di agosto. Dopo questa data l’azienda stelle e strisce potrebbe iniziare a fermare le celle per arrivare alla definitiva fermata ai primi del mese di novembre. A questo punto scatterebbe la cassa integrazione. «Prendiamo atto di quanto comunicatoci – hanno reso noto i rappresentati dei lavoratori, forse spiazzati dalle comunicazioni societarie –e a questo punto decideremo che fare nel corso dell’assemblea generale che si svolgerà dopo l’incontro al ministero dello sviluppo economico entro il mese di luglio». Il punto centrale della vicenda è che Aurelius non è un soggetto con una solida e specifica competenza industriale. È un fondo di investimento che ha nel suo carnet tante società ed è specializzata nella vendita di imprese a terzi. Non ha un focus particolare di interessi, ma spazia dalla chimica, alle telecomunicazioni passando per finanza ed alimentari. Dal bilancio 2011 non emergono relazioni con la produzione e la vendita di alluminio o di metalli non ferrosi. Ma allora perché si è candidata a rilevare lo stabilimento?

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