La Nuova Sardegna

Mondo X, la casa dei malati di Aids

di Elena Laudante
Mondo X, la casa dei malati di Aids

A Sassari la struttura, unica nell’isola, fondata da padre Salvatore Morittu Dal 1997 accoglie pazienti affetti dalla “peste del 2000”

01 dicembre 2012
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SASSARI. Nel cimitero di Siligo, racconta padre Morittu, c’è la lapide anonima di un forestiero. È quella per una povera anima che non fu ammessa nella cappella di famiglia di un altro camposanto. Quel corpo non poteva stare accanto alle tombe dei suoi cari, perché il “forestiero” era morto di Aids. Una parola che allora non si poteva pronunciare. «I parenti mi chiesero di non indicare il nome della malattia». Padre Salvatore Morittu ricorda così la fine choccante - «un vero trauma» - di un ragazzo di 26 anni. Non solo una vittima dell’eroina: era il primo caduto, nell’isola, sul fronte della sindrome da immunodeficenza, la pandemia del Ventesimo Secolo.

Il trauma. Quella morte, risalente al 6 dicembre 1985, fece risvegliare la Sardegna dal torpore cognitivo. «Allora non se ne sapeva nulla. Quando il ragazzo, che era un tossicodipendente ospite della mia comunità S’Aspru, si ammalò, a gennaio 1985, non riuscivamo a spiegarci il dimagrimento improvviso e progressivo. Poi un medico di Thiesi mi disse che poteva essere Aids». La conferma arrivò solo da Roma, dall’Istituto superiore di sanità. Fu uno choc. Undici mesi dopo, il primo malato sardo era spirato; si era come consumato davanti allo sguardo impotente di medici e volontari della comunità di recupero fondata da Morittu a Siligo. «Allora di Aids si moriva, oggi è diverso. Ma anche oggi ci si ammala e soprattutto, ancora oggi più che mai gli insospettabili possono contrarre il virus. Sono sempre più loro i malati, non più soltanto i tossicodipendenti».

Frate anti-droga. Il francescano originario di Bonorva si è fatto le ossa con un pioniere della lotta alle dipendenze come Eligio Gelmini, un prete di strada. Pure Morittu porta il saio come fosse una divisa. È un soldato sul campo di battaglia contro la morte. Ha deciso di guardarla da vicino quando ha fondato l’associazione “Mondo X”, tre comunità di recupero per eroinomani nell’isola, la prima nel 1980, a Cagliari. Ma soprattutto quando, nel 1997, aprì quella che allora era una casa per malati terminali di Aids.

La casa per la “fine”. L’unica struttura del genere nell’isola è a Sassari, dietro la chiesa di Sant’Antonio Abate. Le sue camere da letto, con bagno e qualche piccolo comfort, sono le vecchie celle del vicino convento del 1500. La porta d’ingresso al palazzo con un solo livello sopra il piano terra è nascosta, quasi attaccata al muretto che delimita la ferrovia, in fondo al vicolo che parte da piazzetta Sant’Antonio, costeggiando il decadente Hotel Turritania. Sembra quasi che questi 12 ospiti, gli operatori e i volontari, cerchino di essere discreti, di stare in un cantuccio della città. Disturbato di tanto in tanto dal passaggio dei treni, nel suo ufficio al limite dei binari, Morittu ammette che quella posizione ricorda molto «il lazzaretto addossato alle vecchie mura di Sassari». Ma poi, come si fa a non ricordare la genesi di tutto. «Questa casa è nata grazie alla generosità della gente comune, anche dei sassaresi. L’edificio è stato demolito e ricostruito a tempo di record». Ogni mano misericordiosa aveva messo una parte del miliardo e 800 milioni di lire serviti per tirarlo su. «E ogni mobiliere di Sassari si era offerto di arredare una delle dodici camere». Per garantirsi totale autonomia, «ed evitare che mi mandassero solo i figli dei ricchi, decisi di avere una struttura indipendente da Regione o altri enti. Noi siamo convenzionati e ci manteniamo grazie ai fondi della legge per l’assistenza domiciliare ai malati d’Aids. Ma qui ci viene chi non ha più nessuno». In 14 anni, qui sono passati 70 malati: non sieropositivi, ma affetti da Aids conclamato, quelli che ormai la vita la stavano abbandonando. Almeno allora. Di 70, Morittu ne ha visto 36 chiudere gli occhi per sempre; 22 proprio in questi letti. Ma con questi pazienti un po’ speciali la dolce morte non c’entra proprio nulla. «Alla fine degli anni Novanta arriva la rivoluzione: le terapie iniziano a consentire ai ragazzi (chiama così i suoi ospiti ndr) di avere un’aspettativa di vita». La casa dell’ultimo viaggio diventa domicilio stabile per chi non rischia più la vita per una broncopolmonite. Anche se «il malato di Aids non può stare in ospedale, perché questa patologia può riguardare organi diversi, quindi richiede l’abbattimento delle divisioni tra reparti». Qui c’è un infettivologo e la psichiatra, e volontari e operatori che coccolano e accompagnano gli ospiti ad ogni ora della giornata. Per alcuni questa non è l’unica casa, ma la sola famiglia. «Quando scoprono della malattia, a volte i parenti li allontanano e ci vuole un po’ perché li riaccettino». Alcuni malati non lo capiscono, quando il male intacca i tessuti cerebrali. «È difficile capire cosa alberghi nel loro cuore - spiega il frate - Ma se li guardi come fossero un giardino e non un residuo di vita, allora un loro sorriso ti sembra esplosivo». Vitale.

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