La Nuova Sardegna

L’anima vera di Israele tradita dall’ingiustizia verso i palestinesi

di Anna Sanna
L’anima vera di Israele tradita dall’ingiustizia verso i palestinesi

Sassari, la scrittrice Miriam Marino parla del suo lavoro e degli ebrei che si battono nel mondo per i diritti umani

19 marzo 2013
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SASSARI. «Mentre distrugge i palestinesi strappando loro ciò che hanno di più caro, Israele non si rende conto di avere i nemici dentro di sé, perché agendo in questo modo sta uccidendo la sua anima». La voce di Miriam Marino è quella degli ebrei che non condividono l’operato di Israele nei confronti della popolazione palestinese. Scrittrice e artista, fa parte della Rete Ebrei contro l’occupazione (Eco), un gruppo di ebrei italiani che si mobilitano per denunciare le ingiustizie portate avanti da Israele e garantire i diritti umani dei palestinesi. Questa sera alla 19.30 sarà ospite del Vecchio Mulino, a Sassari, per presentare “Festa di Rovine”: un libro di racconti ambientati nel corso della Seconda Intifada dei primi anni duemila e nella Baghdad dell'occupazione americana del 2001, in cui la scrittrice romana mette in luce la sofferenza di bambini e ragazzi.

L’incontro è organizzato dalle associazioni “Ponti non Muri”, “Intercanvi Italia Onlus” e “Sardegna Palestina”.

Da cosa nasce l’esigenza di raccontare la Palestina, e di impegnarsi contro l'occupazione israeliana?

«Sono sempre stata sensibile alla questione palestinese. La decisione di impegnarmi arriva dopo la Seconda Intifada perché è stato un evento sconvolgente. Anche la Prima Intifada era stata repressa ferocemente, ma il mondo aveva capito che c’era un popolo che lottava contro l’oppressione. Invece con gli attentati in Israele durante la Seconda Intifada, sembrava che i palestinesi fossero tutti terroristi. Però ci sono stati due milioni di morti, la distruzione del campo profughi di Jenin, assedi di città. Fino ad allora non avevo sottolineato la mia origine ebraica, ma a un certo punto mi sono sentita responsabile, era diventato obbligatorio distinguersi dalla narrazione che Israele presentava dei fatti».

Qual è la posizione delle Rete degli Ebrei contro l’occupazione, e cosa chiedete?

«La Rete è nata sull’onda della Seconda Intifada, con una lettera sul Manifesto intitolata “Non in mio nome”. Cerchiamo di spiegare come stanno veramente le cose, di fare chiarezza su Israele e la Palestina. Riteniamo di essere tutti fratelli nell’umanità, e siamo contro l’apartheid in Cisgiordania. Non si può definire diversamente: adesso hanno messo autobus divisi per palestinesi e israeliani. Gaza invece è una prigione a cielo aperto. Chiediamo che vengano riconosciuti i diritti dei palestinesi e che si giunga a una situazione di vivibilità per tutti. Non siamo soli. In Europa c’è l’associazione degli Ebrei europei per una giusta pace, e anche in Israele qualche voce di dissenso riesce a levarsi, come gli Anarchici contro il Muro».

In una delle sue storie il colono pacifista Ilan, dopo aver capito le condizioni in cui vivono i palestinesi dice una frase significativa alla sua famiglia “stanno recitando il copion e che voi avete scritto per loro”?

«Intendo dire che se un palestinese fa un attentato può essere un terrorista, ma può anche essere uno a cui a un certo punto è “scoppiato il cuore”. Recitare il copione che altri hanno scritto significa che gli elementi più fragili possono farsi prendere dalla disperazione e cadere nelle provocazioni lanciate da Israele. Come quando arrestano persone innocenti soltanto perché parenti di un terrorista, o ritengono di poter giudicare ragazzini di 12 anni allontanandoli dai Territori e detenendoli nelle carceri israeliane».

Israele giustifica le sue azioni con l’esigenza di sicurezza. I razzi lanciati da Hamas e da altri gruppi palestinesi colpiscono anche i civili, a volte nella stessa Striscia di Gaza. Cosa pensa di questo?

«Non condivido la politica di Hamas perché, essendo un’organizzazione religiosa, ritengo che metta un freno alla libertà di donne e giovani. La società civile palestinese è molto matura ma i loro leader non lo sono altrettanto. Non lo è Abu Mazen, non lo è Hamas. Anche l’Autorità Palestinese non fa sempre scelte condivisibili. La questione della sicurezza però è di una falsità pazzesca, semmai dovrebbero invocarla i palestinesi. Israele sta torturando un’intera popolazione, e se metti le persone in certe condizioni la reazione è inevitabile. Il discorso va completamente rovesciato: è Israele che crea insicurezza in tutto il Medio Oriente».

I suoi racconti sono preceduti dall’elenco dei bambini uccisi negli scontri della Seconda Intifada. Perché è importante restituire un nome, una storia a quelli che vengono definiti gli “effetti collaterali” di un conflitto?

«Ancora sopravvive una percezione secondo cui soltanto gli occidentali contano qualcosa. Qualsiasi cosa succeda agli altri popoli è secondario, come se queste vite non fossero importanti. I morti palestinesi sono numeri, non si dice chi sono, che vita hanno avuto. Dare un nome significa renderli visibili. Ha lo stesso valore della lettura dei nomi delle vittime della mafia o dei morti della Shoah».

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