La Nuova Sardegna

«Trasformiamo la crisi in una grande occasione di riscatto per il Paese»

di Giacomo Mameli
«Trasformiamo la crisi in una grande occasione di riscatto per il Paese»

Intervista con Giovanni Floris: «Se vogliamo una società più giusta, ricca e democratica dovremo darci da fare tutti»

23 aprile 2013
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Apprezza "i politici che hanno metodo", merce rara in questi giorni da notte della politica. E cita Carlo Azeglio Ciampi e Gino Giugni, da fare santi subito. «Esponevano chiaramente il loro piano, non delegittimavano mai gli interessi con cui dovevano confrontarsi, trattavano e cercavano di portare gli interlocutori più vicino possibile all'obiettivo che avevano dichiarato in principio. Guidavano la politica alla luce di una visione del futuro che nasceva da una ricca e profonda esperienza passata. Uno dei capisaldi di questa esperienza era la consapevolezza che non si può nascondere il costo delle scelte. L'Italia deve scegliere e cambiare ma deve pagare qualche prezzo. Occorre dirlo. Invece oggi si annunciano i regali non i sacrifici». Giovanni Floris risponde al telefono a metà mattina dagli studi romani di “Ballarò” dopo aver vinto la prima serata televisiva con cinque milioni di telespettatori e uno share del 18.59 per cento. Ha riparlato di attualità politica pochi giorni fa a Roma, dove ha presentato il nuovo libro "Oggi è un altro giorno", edizioni Rizzoli. Sono 193 pagine di analisi ma soprattutto di proposta. Ne parlava nei momenti caldissimi dell'elezione del Capo dello Stato, del dissolvimento del Pd diventato Partito Diviso, Distrutto, Defunto. E ne riparlerà stasera durante il suo programma definito "il più affidabile fra i talk show televisivi in Italia".Dice Floris: «Siamo reduci da un diluvio elettorale che ha cambiato radicalmente il panorama politico».

E per cambiarlo davvero?

«C'è chi elenca otto punti. Io ne indico cinque: apertura verso gli altri, laicità, competitività, ricchezza da creare, rigore. Senza rigore ricchezza non se ne crea. E i senza lavoro resteranno tali».

Anche domani sarà un altro giorno diverso da oggi: viviamo in un Paese da carpe diem, senza certezze. Resta la confusione, la rissa, l'insulto, il turpiloquio.

«Non mi lascerei trascinare da una lettura troppo amara. Viviamo, certo, un momentaccio, è vero, ma il tempo in cui si perdono le proprie certezze è anche quello in cui si possono scoprire nuove verità. Paradossalmente dovremmo provare ad approfittare della crisi di questa politica».

Che fare per ridiventare un Paese normale?

«Tante cose sul piano pratico. Ma in questo libro mi concentro più che altro su quello che bisognerebbe fare sul piano ideale. Ripartire da una domanda base: che società vogliamo? Se la vogliamo aperta, laica, ricca, meritocratica e giusta dobbiamo sapere che dovremo darci da fare, e pagare qualche prezzo».

Ancora dettano legge le appartenenze, non le competenze. Perché la meritocrazia è una signora tanto avversata?

«Di certo le corporazioni sono forti: Mario Monti è passato come un bulldozer sul sistema pensionistico italiano, ma ha frenato di botto appena si è trovato a trattare con tassisti, avvocati e notai. Va pure detto però che siamo portati a proteggere chi non ha merito piuttosto che a cercare di sfruttare il talento di ognuno, a leggere i meccanismi di selezione come meccanismi di esclusione sociale, tendendo a dubitare delle qualità di chi vince piuttosto che a rimuovere i freni che hanno rallentato lo sconfitto».

Perché anche plotoni di giornalisti cavalcano la rissa e rifuggono dall'analisi, dai fatti, dai numeri?

«Cerco di fare seriamente il mio lavoro. Per giudicare me e i colleghi ci sono i nostri lettori, o i nostri telespettatori. A ognuno il suo ruolo».

Lei cita Karl Raymund Popper e la mania di pulire le lenti degli occhiali: ma sembra restino sempre sporche, appannate. Sembra un Paese che ama il recinto e non sa discutere in campo aperto. Difende il particolare e dimentica il generale.

«È vero, quella frase di Popper mi ha sempre colpito. Diceva che certi scienziati sono troppo occupati a pulire i loro occhiali, preoccupandosi ben poco di ciò che con quegli occhiali dovrebbero vedere. È quello che è capitato negli ultimi anni a tutti noi. Puliamo le nostre teorie, lucidiamo le nostre identità, soffiamo il nostro alito sui difetti degli altri; ma dimentichiamo la realtà che dovremmo ridisegnare. Ma ora il tempo è scaduto: è il momento di darci da fare».

I ricchi diventano sempre più ricchi e crescono moltissimi poveri, in Italia e nel mondo.

«Quanto più profonde sono le distanze fra povero e ricco, tanto più soffre la società: più criminalità, meno salute, meno istruzione. La lotta alla diseguaglianza è la priorità del nostro tempo. Il punto è: come abbatterla? Secondo me promuovendo il progresso degli ultimi in una società dinamica, che riesca ad arricchirsi in maniera sostenibile. Ci si può permettere di sognare un mondo in cui tutti conoscano il benessere, non uno in cui tutti si omologhino nella povertà. E soprattutto dando a tutti le stesse possibilità di crescere con l'istruzione. Più scuola. Per tutti. Non solo le elites debbono frequentare la London School o Yale. Sono contento che i miei figli studino con i figli di immigrati perché stare sul banco con un ragazzo musulmano o con una bambina cinese vale più di cento lezioni. E sono uguali. Hanno le stesse opportunità. Poi, prevalga pure il migliore».

Nelle ultime pagine del libro lei invoca che ciascun cittadino metta "nuovi calzini e si liberi dagli abiti usati". Ma molti italiani vogliono indossare l'abito comprato vent'anni fa.

«Quando giocavo a pallone, a Roma durante i mesi freddi o d'estate tra Cala Gonone e Olbia, se arrivavo in una squadra nuova mi studiavo i nuovi compagni. Qualcuno arrivava in moto, qualcuno con una bella macchina, qualcuno fumava, qualcuno vestiva il piumino alla moda. Qualcuno era molto spiritoso, qualcuno aveva un gran carisma e si imponeva subito come capo. Poi c'era la partita, e i ruoli si mischiavano, in genere cambiavano. Il più carismatico magari finiva in panchina, non riconoscevi più quello col piumino che con la tenuta sociale era uno qualsiasi, scoprivi che l'agognata maglia numero 10 finiva sulle spalle di un ragazzino che non avevi mai notato, l'unico in grado di illuminare il gioco della squadra. Sul campo le regole cambiano. Mettiamoci gli scarpini e andiamo a giocare, magari scopriremo che la partita è più semplice di quello che pensavamo».

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