La Nuova Sardegna

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di Valeria Gianoglio
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11 luglio 2013
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NUORO. È finita come nessuno, nemmeno la stessa difesa, in fondo si aspettava. Alle 13.30 di ieri, i giudici della Corte di Cassazione di Roma escono dalla camera di consiglio, leggono velocemente il dispositivo, pronunciano le parole “annullamento con rinvio”. Annullata la sentenza della Corte d’assise d’appello di Sassari che il 18 novembre 2012 aveva condannato all’ergastolo gli olianesi Mario Deiana e Sebastiano Pompita per gli omicidi di Pietrina Mastrone e Tiziano Cocco, trovati senza vita nel pozzo di Manasuddas la notte tra il 27 e il 28 ottobre del 2007. Annullata, probabilmente, per un banale vizio di forma nell’avviso dell’incidente probatorio chiave dell’intera inchiesta: quello durante il quale il pentito Mario Fele aveva vuotato il sacco e chiamato in causa i suoi complici. Ma solo il deposito delle motivazioni, entro 60 giorni, potrà dire se è proprio questa la ragione dell’annullamento.

«Annullamento» dice, dunque, la suprema corte. Ed è allora che un gruppo di avvocati calabresi, gli unici presenti in aula in quel momento perché attirati dal clamore della vicenda, raggiungono di corsa i colleghi arrivati dalla Sardegna che si erano spostati poco prima per tirare il fiato e bere un caffè. Agitano le mani, fanno segno di vittoria. «Annullata, annullata» gridano verso i penalisti, come un gruppo di calciatori che esulta per una rete ingiusta tolta all’avversario. Gianluigi Mastio e Giovanni Colli vengono travolti dagli abbracci e dalle pacche sulle spalle. Per qualche istante, insieme al collega Francesco Lai, pensano persino a uno scherzo, perché è da quando è cominciata la storiaccia del pozzo vicino a Oliena, che ripetono che nel caso Manasuddas ha avuto troppo peso l’impatto emotivo, più che le fredde norme. Ebbene, evidentemente ieri mattina hanno vinto loro, anche se bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire come e perché.

Annullato tutto, dunque si riparte e per il duplice omicidio di Manasuddas, nei prossimi mesi, sarà un’altra corte d’assise d’appello, quella di Cagliari, a far luce. Le due condanne in appello all’ergastolo per Deiana e Pompita, non ci sono più, con tutto ciò che ne può conseguire, compresa una probabile scadenza dei termini di custodia cautelare per entrambi. Deiana, dunque, potrebbe presto uscire dal carcere cagliaritano di Buoncammino dove è rinchiuso da circa cinque anni. «Sto pagando per una colpa che non ho – aveva scritto qualche mese dopo la sentenza, dalla sua cella – dopo il grave errore della sentenza di primo grado speravo che in appello, rivalutando le testimonianze e considerando le omissioni, emergesse con chiarezza la mia estraneità al duplice omicidio. Non è stato così. Sono disperato e la mia disperazione cresce un giorno dopo l’altro. Sto pagando da tempo una colpa che non ho, e soprattutto ciò che mi fa male è che vengo considerato una persona cattiva».

Per Pompita, invece, la situazione è più complessa, perché ha già una sentenza definitiva da scontare per altre vicende, e pertanto non dovrebbe uscire comunque dal carcere, anche se dovessero scadere i termini della custodia cautelare per i fatti di Manasuddas. E adesso? Adesso si riparte: nuovo processo di secondo grado, nuova Corte d’assise d’appello. E tutto, a quanto pare, per una dimenticanza che le norme che regolano la procedura penale chiamano “vizio di forma”. Qualche anno fa, infatti, quando la Procura aveva inviato alle parti in causa l’avviso relativo all’incidente probatorio durante il quale il pentito Mauro Fele – già condannato all’ergastolo per Manasuddas in via definitiva – aveva raccontato la sua verità, non in tutti gli avvisi comparivano anche i nomi delle parti offese. Gli avvocati Mastio, Lai e Colli, già nei primi due gradi di giudizio aveva sollevato questa eccezione, chiedendo l’annullamento dell’incidente probatorio, ma la richiesta era sempre stata rigettata. Ieri, stando alle previsioni, sarebbe stato proprio questo il motivo per il quale la Cassazione ha annullato i due ergastoli. E si ricomincia.

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