La Nuova Sardegna

Dalle miniere a New York con la Sardegna nel cuore

di Antonio Mannu
Dalle miniere a New York con la Sardegna nel cuore

Nato a Cagliari, ha girato il mondo prima di fermarsi a Staten Island

07 ottobre 2013
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NEW YORK. «Sono nato a Cagliari e i primi due anni di vita li ho trascorsi nelle zone minerarie del Sulcis, principalmente nella miniera di San Giovanni. Mio padre, come mio nonno, era ingegnere minerario. Per due generazioni la vita della famiglia ha ruotato intorno alle miniere». Francesco Fadda vive a New York da una dozzina di anni. E' sposato con Laura ed è padre di due gemelli, Lorenzo e Carolina.

Dalla Sardegna la famiglia si trasferì in Veneto, dove il padre assunse la direzione della miniera di Salafossa. Dopo circa 3 anni, un salto di continente: destinazione San Paolo del Brasile, sempre dietro agli impegni professionali paterni. «Nei confronti della miniera ho un pensiero positivo, anche se sono consapevole di averla vissuta da privilegiato. Ho sentito tanti racconti, soprattutto da mia nonna, un'insegnante elementare. Le mie idee su ciò che l'industria mineraria ha rappresentato in Sardegna sono state influenzate da lei, dalle storie che mi ha riferito. Per nonna la miniera rappresentava una qualche prima possibilità di emancipazione femminile, perché permetteva alle donne di fare un lavoro remunerato, di avere un salario. Questo, nel contesto di estrema povertà di quel territorio, era qualcosa di epocale e socialmente positivo».

Francesco racconta un episodio: l'assunzione di una ragazza poverissima, arrivata alla miniera sola, scalza e vestita con un sacco di iuta. «Per quella donna la miniera era un'opportunità. Certo, la vita del minatore era durissima: incidenti, crolli, morti per asfissia. Anche mio nonno è morto giovane per enfisema polmonare. Ma era anche la scoperta di una grotta completamente foderata di cristalli. Il primo minatore che la vide raccontò di aver pensato di essere arrivato all'inferno, tanti erano i riflessi. Mio padre diceva che era uno degli spettacoli più straordinari che avesse mai visto».

Oggi Francesco, dopo un percorso di studi e di vita che, durante il periodo universitario, lo ha riportato per qualche anno in Sardegna, dal mondo delle miniere si è allontanato. Lavora per Casa Belvedere, centro culturale di Staten Island fondato nel 2009 da Gina Biancardi. Si occupa principalmente di interventi di promozione della cultura italiana: festival di cinema e teatro, presentazioni di libri, tavole rotonde, tutto ciò che può essere utile per far conoscere l'Italia contemporanea alla comunità italo americana che, a Staten Island, forma quasi il 50% della popolazione di circa 250.000 persone.

«E' un lavoro interessante. Il nostro obiettivo è mostrare aspetti dell'Italia odierna a persone che spesso non ci sono mai state o che non hanno più avuto occasione di tornare, cercando di avvicinare la comunità italo americana a temi che poco o nulla conoscono, riavvicinandoli anche alla lingua, perché molti qui parlano il dialetto del luogo di provenienza, quasi non conoscono l'italiano. Organizziamo anche dei corsi di cucina, proponendo le tendenze più attuali». Dopo la laurea in Economia e Commercio all'Università di Cagliari, Francesco ha tentato, senza successo, la carta della carriera diplomatica. La sua principale aspirazione era quella di viaggiare. Conclusi gli studi, ha fatto una prima esperienza in Polonia, poi in Giappone quindi, dopo una breve parentesi romana, città in cui ha trascorso gran parte dell'adolescenza, è approdato a New York.

«C'ero già stato a 18 anni. Mi era piaciuta e mi ero ripromesso di tornarci. Non avevo un’idea precisa di quanto tempo ci avrei trascorso, ma sapevo di voler fare un'esperienza qui. Sono arrivato il 4 o il 5 settembre 2001, esattamente non ricordo. Nel giro di pochi giorni c'era stato il benènnidu che sappiamo. Ho avuto notizia dell'attentato al mio arrivo in ufficio, da una telefonata dall’Italia. Mi chiedevano cosa stesse succedendo. Ho cercato di entrare in rete ma era tutto bloccato. L'unica pagina che son riuscito ad aprire era quella del Corriere della Sera: c'era una foto della prima torre fumante ma non si capiva più di tanto. Poi ha chiamato mio fratello, stava davanti alla tv. Mentre parlavamo è arrivato il secondo aereo e ho saputo da lui quello che accadeva a pochi chilometri. Dopo mezzora ci hanno evacuato e sono andato a casa. Poi sono uscito e ho camminato per quasi 8 ore. Era impressionante la fiumana di gente che si spostava a piedi, in una quiete irreale per una città dove non c'è mai silenzio. Si sentiva solo il brusio della folla, il rumore dei passi, ogni tanto una sirena. Tutto il resto taceva».

Francesco a New York, quando può, partecipa alle attività del circolo dei sardi, frequenta amiche e amici provenienti dall'isola. Dice che, nonostante i tanti luoghi in cui ha vissuto, si sente sardo. «Molti mi prendono un po' in giro per questo, dicono che in fondo in Sardegna ci ho vissuto poco. Ma quando mi chiedono da dove vengo rispondo che sono sardo. Non mi viene da dire che sono romano anche se Roma, città che amo, è forse il luogo dove ho vissuto più a lungo e in cui ho trascorso l'adolescenza. Ma Roma, a meno di non esserci nati e cresciuti, è un po' come New York. Uno si può definire newyorchese se ci è nato e cresciuto, non credo bastino 10 anni di vita qui per stabilire quel vincolo che sento per la Sardegna. Ci sono cose che mi legano all'isola, di cui chissà quante volte vi avranno detto: sapori, profumi, colori, anche suoni. Suggestioni proustiane, se vogliamo. So che quando arrivo sono contento, scatta una sorta di riconoscimento che, in qualche modo, socialmente, è anche reciproco».

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