La Nuova Sardegna

Addio a Rina Fancellu Una donna, un’epoca

di MANLIO BRIGAGLIA
Addio a Rina Fancellu Una donna, un’epoca

Madre del presidente Pigliaru, animatrice della vita culturale

18 luglio 2014
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MANLIO BRIGAGLIA. Il giorno del suo matrimonio, Rina Fancellu, che ci ha lasciato ieri all’età di 89 anni, mandò un amico dal fidanzato, Antonio Pigliaru, che aspettava nella sua casa di via Galilei il momento di uscire per andare in chiesa: l'amico aveva l'incarico di fare il nodo della cravatta al futuro sposo. Fino a quel momento, gennaio 1951, Antonio, a quasi trent’anni, non aveva mai messo una cravatta: e anche per il resto della vita avrebbe avuto più d'una resistenza a metterla, salvo le occasioni d'obbligo. Quell'uomo che rifiutava la cravatta era un rivoluzionario, e già aveva pagato pegno per la sua passione politica: al colonnello Fancellu e a sua moglie, una Viale della grossa borghesia sassarese, con ogni probabilità non andava di affidargli l'unica figlia femmina. O per lo meno così si diceva nel giro dei pettegolezzi prematrimoniali che correvano allora a Sassari, non escluso l'ambiente della Fuci dove si diceva che don Enea, una carismatica figura di sacerdote specializzato in conversioni importanti e in costruzione di famiglie, vedesse invece con simpatia quel giovane studioso, profondamente cattolico ma d'un cattolicesimo che, nutrito del personalismo comunitario di Maritain, viveva (come gli accadde poi per l'intera difficile vita, traversata da una lunghissima malattia) come un rigoroso ma ineludibile ideale di vita. La battaglia per avere l'assenso dei genitori fu la prima delle grandi battaglie di Rina, che vi si cimentò con un coraggio per cui tutti gli amici facevano il tifo.

«Morirò a quarantasei anni», le profetizzò un giorno Antonio. Fu l'occasione di uno dei rarissimi litigi dei loro quasi vent'anni di matrimonio. Ma la profezia restava: i lunghi ricoveri in clinica, le ricadute dopo le riprese erano la battaglia cui Rina era chiamata praticamente tutti i giorni. Ma chi la ricorda la ricorda, sempre vicina al marito, sempre sorridente e gentile. Gli aveva fabbricato intorno un'atmosfera di sicurezza e di tranquillità, che aveva il suo fortilizio nella loro casa di via Manno. Tante volte è stato raccontato di quella casa dalle porte sempre aperte, con amici che entravano ed uscivano, s'incontravano e discutevano senza complimenti. Erano gli anni di piombo del banditismo e Antonio aveva scritto un libro a suo modo sconvolgente, Il codice della vendetta barbaricina, che, partendo dalla teoria della pluralità dei codici, arriva a riscrivere in 23 articoli la legge mai scritta ma ininterrottamente cogente che da secoli regolava i rapporti più duri fra singoli e gruppi familiari nella società in cui lui stesso, orunese, era nato e cresciuto bambino. Gli inviati speciali della grande stampa nazionale, appena sbarcati dall'aereo, bussavano lì, alla sua porta, a cercare risposte a quel fenomeno che devastava la Sardegna e di cui Pigliaru, per aver cercato di decifrarlo scientificamente, era accusato dagli opinionisti di destra come un difensore, se non addirittura un complice. Rina era sempre presente, ma discosta e in silenzio: di suo ci metteva un pezzo di famiglia, perché Giovanni e Francesco, i due bambini maschi, razzolavano allegri fra le gambe degli inviati. Per la bambina, Amelia, Pigliaru ci metteva un affetto delicato e totalmente dichiarato. Quando affrontò uno dei suoi concorsi per la cattedra universitaria e s'avvicinava la nascita della bambina, ogni lettera a Luigi Berlinguer, che da Roma seguiva l'andamento e gli intrighi del concorso, era divisa a metà: metà per la cattedra, metà per l'attesa di Amelia.

Dopo la morte di Antonio (nel 1969 aveva quarantasei anni, come aveva profetizzato) il suo insegnamento restò nella memoria degli amici come una grande, nutriente lezione di vita. E subito si capì che quella lezione era proprio Rina ad averla ricevuta in eredità assoluta: in diversi modi continuò il suo lavoro, raccogliendo gruppi di studiosi e allievi intorno ad alcuni dei grandi temi che erano stati propri di Antonio. Chiamata ad insegnare Legislazione scolastica nella Facoltà di Magistero, Rina si trovò a lavorare nel gruppo di Iniziative culturali, creato insieme ad Alberto Merler, e presto specializzato nell'indagine del sistema scuola e in particolare della scuola in Sardegna (Scuola in Sardegna si chiamava un piccola rivista che Antonio aveva fatto per un sei-sette numeri, quando importava tra i suoi la lezione di don Milani: a casa loro si potevano ascoltare registrazioni quasi "rubate" nella scuola di Barbiana). Di quel lavoro resta un libro di Rina scritto con Merler, titolo Il rinoceronte pensato. Processi di adesione e di emarginazione scolastica, un problema che da allora non ha finito di angosciare chi si interessa di scuola nell'isola, con quegli indici terrificanti della dispersione scolastica.

Mi accorgo che, parlando di lei, ho parlato anche e molto di Antonio: chi glielo avrebbe detto, quella sera della novena di Natale del 1946, quando si videro per la prima volta, che questo "sgarbo" le avrebbe fatto piacere.

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