La Nuova Sardegna

Il respiro di una città Nel grembo del mare il mistero della vita

di MASSIMO ONOFRI

La poesia del vivere, dei gesti e delle parole, degli affetti Una novantenne che s’affacciava al presente di mia figlia

28 luglio 2014
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di MASSIMO ONOFRI

L’ha canticchiata chiunque, in questi ultimi vent’anni, arrivasse nella dolcissima e elegante capitale della riviera del corallo: «Voglio andare ad Alghero/in compagnia di uno straniero. /Ma mia madre non lo deve sapere, non lo deve sapere, non lo deve sapere». Epperò, in contraddizione al celebre adagio di Giuni Russo, ad Alghero bisogna venirci da soli, o, se si è veramente innamorati, in compagnia di chi si ama: per brindare sui bastioni al sole che tramonta memorabile su Capo Caccia, magari accarezzati da un maestrale aperto e franco, con tutta l’enfasi sentimentale di chi sa accogliere in sé, almeno una volta da giovane, tutta la pienezza della vita. E farlo, quel brindisi, con la stessa disposizione d’animo con cui il ventiquattrenne Elio Vittorini si preparava al viaggio che avrebbe poi pubblicato per l’editore Parenti nel 1936, ma che solo nel 1952 sarà intitolato “Sardegna come un’infanzia”, ora appena ristampato nei Tascabili Bompiani. Un taccuino di viaggio che gli era valso il premio promosso da “L’Italia letteraria”, ma a pari merito con Virginio Lilli, assegnatogli da una giuria che contava tra i suoi membri una Grazia Deledda per niente entusiasta delle pagine del fervoroso e bellissimo siciliano, così pieno di baldanza, così lirico e illusivo, così agitato da astratti furori.

Dicevo della disposizione d’animo del Vittorini che arrivava in Sardegna: «Io so cosa vuol dire essere felice nella vita». Che poi voleva dire un atto di fede nella «bontà dell’esistenza»: e cioè «il gusto dell’ora che passa e delle cose che si hanno intorno, pur senza muoversi, la bontà di amarle, le cose, fumando, e una donna in esse». Già, una donna in esse: «E il cuore di lei sotto le labbra». Quando gli appare dal piroscafo, Alghero sembra «chiusa in una piega della costa oscura coi suoi campanili dentati», tutta accesa «di lumi azzurrognoli», che il vento, o una sua impressione, fa quasi palpitare. Ma a colpire Vittorini è il sapere che vi si parla catalano, un catalano –mi piacerebbe dire – del tutto immaginario, utopico, ancora oggi cantilenato da qualche anziano pescatore mite e malinconico e che ho ritrovato nelle cadenze struggenti e d’oro d’una poetessa scomparsa poco più di due anni fa: «Los fills/que neixen/quan venen al món/la mare los fa,/mes són altra gent». Tradotto in italiano: «I figli che nascono/e vengono al mondo/la madre li fa,/ma sono altra gente». Grande verità, questa: i figli nati dalla nostra carne seguono il caso della carne ma – scriveva Alberto Savinio – «il caso non a caso fa diversi i figli da come i genitori li avevano sognati». La poetessa qui citata è Maria Chessa Lai, una madre che di figli ne ha avuti cinque, tutti amatissimi: Pasquale, Antonio, Franca, Enza e Maria Vittoria. Ma che ha saputo implicare nella sua maternità un senso della libertà e della solitudine che è di pochi privilegiati.

Ho avuto l’onore, la fortuna e il grande piacere di conoscerla di persona. La sua grande bellezza spirituale, il suo sentimento del mondo, il naturale farne quotidiana poesia – dico la poesia del vivere, dei gesti e delle parole, degli affetti, della civile conversazione –, ancora adesso, nel ricordo, mi commuove. Dal promontorio dei suoi novant’anni s’affacciava fino al presente di mia figlia undicenne. E ci arrivava così: con un paio di scandalosi pantaloni e una lambretta per correre a scuola come supplente, nella Sardegna degli anni ’40. Da lì, minutissima ma di tenace concetto, Maria ci si rivolgeva soave: curiosa di sé, di noi, di tutto. La soavità lieta d’una vita che coincideva felicemente, e serenamente, con se stessa.

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