La Nuova Sardegna

Omicidio di un pastore: alle indagini per il delitto collaborò l’assassino

di Mauro Lissia
Omicidio di un pastore: alle indagini per il delitto collaborò l’assassino

Il responsabile ora è stato condannato, ma è a piede libero. Mentre Francesco Baldussu, due anni in cella innocente e vittima di un errore giudiziario, attende il risarcimento dallo Stato

10 gennaio 2016
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CAGLIARI. Quasi due anni tra carcere e custodia domiciliare, accusato di aver ucciso un servo pastore diciannovenne con un colpo di pistola in bocca. In realtà l’autore di quel delitto commesso il 24 febbraio 2009 con una tecnica estranea al mondo rurale sardo non era lui, Francesco Baldussu, pastore di Serdiana, ma un pentito di n’drangheta confinato in Sardegna e datore di lavoro della vittima, che anzichè attrarre legittimi sospetti lavorò alle indagini su incarico della Procura di Cagliari.

La strana collaborazione. Una forma di collaborazione bizzarra: tra interrogatori registrati e iniziative personali, Rocco Varacalli (45 anni) di Careri seminò indizi falsi contro Baldussu e il padre. Un caso forse unico nella storia giudiziaria italiana: l’assassino che indaga sul delitto di cui è responsabile, col benestare e al servizio del pubblico ministero. Arrivata l’assoluzione definitiva e la condanna del responsabile, quello di Baldussu rappresenta un caso di errore giudiziario clamoroso che sta per uscire dalle cronache dell’isola per deflagrare a livello nazionale: l’ex parlamentare radicale, avvocato e componente del Csm Mauro Mellini ha raccontato la storia del giovane pastore di Serdiana in un servizio-intervento sul Tempo di Roma intitolato “Se il pentito conduce le indagini e lo stato fa l’impunito”. Altre iniziative stanno per partire grazie anche all’impegno del suo difensore, l’avvocato Patrizio Rovelli, perché a distanza di due anni e quattro mesi dalla presentazione dell’istanza la Corte d’Appello di Cagliari non ha ancora deciso se il ragazzo, oggi venticinquenne e padre di un bambino, ha diritto ai circa 200 mila euro di riparazione per ingiusta detenzione previsti dalla legge.

Il curriculum. Nel frattempo Rocco Varacalli - il vero assassino e pentito di riferimento nell’operazione Minotauro del procuratore Giancarlo Caselli sulla n’drangheta in Piemonte, 145 arresti nel 2011 - ha aggiunto una condanna a 24 anni e mezzo per l’omicidio volontario di Corona, maltrattamenti alla compagna e armi a quella a 17 anni rimediata come mandante di un altro delitto a Torino. Tra una collaborazione con la Procura di Torino e una con quella di Cagliari, l’ex uomo di punta della malavita organizzata nella Locride ha trovato il tempo per scrivere un libro autobiografico - “Sono un uomo morto” per Chiarelettere insieme al giornalista Federico Monga - e anche per violentare una quattordicenne in Sardegna e mettere a segno rapine e furti di varia natura, fra risse, minacce e racconti di imprese criminali compiute nel suo poco invidiabile passato, tra sette arresti e altre sentenze di condanna rimediate nella penisola e nell’isola.

Libero. È tutto scritto negli atti giudiziari e nelle cronache, ma questi fatti non sono bastati a toglierlo dalla circolazione: Varacalli è libero, si muove tra i paesi del circondario cagliaritano, continua la sua vita spericolata. La giustizia italiana ha inflitto una lunga carcerazione a un pastorello innocente, riservando ogni garanzia a un killer recidivo.

La condanna. Questa storia non è inedita, ma è inedito il contenuto della sentenza con la quale è stato condannato Varacalli il 16 aprile 2015, depositata dalla Corte d’Assise di Cagliari lo scorso 24 dicembre. Sono 95 pagine firmate dal presidente Francesco Sette ed elaborate dal giudice Giorgio Cannas. Pagine chiarissime, che raccontano i passaggi di una vicenda rimasta forse sotto traccia solo perché il morto ammazzato si chiamava Alberto Corona, un nome qualsiasi in un qualsiasi paese della Sardegna. I talk show hanno ignorato la vicenda e nessuno ha contestato i privilegi concessi a Varacalli, che pur avendo costruito prove false contro Francesco Baldussu e di suo padre non è stato mai accusato di calunnia. La ragione? Un’ipotesi: una condanna riferita a quel reato avrebbe indebolito la sua posizione di collaboratore di giustizia a Torino, dove è stato il perno dell’accusa al processo contro le n’drine calabresi.

La protezione. Osserva Mellini: «Varacalli è stato condannato ma è rimasto a piede libero. Il programma di protezione l’ha dunque protetto anche da alcune delle conseguenze del suo ritorno al crimine. Continuerebbe, a quanto pare, ad abitare nelle casa pagata dallo Stato e credo a percepire la sua paghetta. Ma il culmine dell'impudenza si deve riconoscere è stato raggiunto dallo Stato italiano. Avendo Francesco Baldussu richiesto allo Stato il risarcimento per l’ingiusta detenzione, finora gli è stato negato».

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