La Nuova Sardegna

Varacalli, il delitto e il tentativo di depistaggio

Varacalli, il delitto e il tentativo di depistaggio

La Corte d’assise: «Ha seminato prove false». Il pm: «Non un collaboratore, ma un cinico bugiardo»

10 gennaio 2016
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CAGLIARI. All’alba del 24 febbraio 2009 il pentito di n’drangheta Rocco Varacalli bussa alla porta di casa della compagna completamente ubriaco, farfuglia frasi sconnesse, prende una grossa pistola dal seminterrato e minacciandola con quella la costringe a dirgli: «Sei un mafioso». Poi s’allontana in auto urlando che qualcuno gli sta rubando le pecore. Alle 7 di quella stessa mattina il corpo senza vita del giovanissimo servo pastore Alberto Corona viene trovato all’ovile di Ghineu, tra Dolianova e Serdiana, proprietà di Varacalli ma gestito da Raffaele e Francesco Baldussu, padre e figlio.

Sono proprio i due allevatori e chiamare i carabinieri. Il primo medico attribuisce la morte a cause naturali, solo l’autopsia rivela che a uccidere il ragazzo è stato un colpo di pistola sparato sulla bocca. Sul luogo nessuna traccia di armi e proiettili compatibili. La tecnica usata rimanda inevitabilmente alle esecuzioni mafiose e non certo ai delitti rurali dell’isola, Varacalli è un ex capo della n’drangheta calabrese e in quel momento ha già nel recente passato una condanna a 17 anni come mandante di un omicidio. Eppure la Procura sceglie di indagare a largo raggio, nascondendo ai giornali il fatto che si trattasse di un assassinio e disponendo intercettazioni. Il 18 marzo il pm Sandro Pili, a corto di indizi, decide di affidare proprio a Varacalli un incarico investigativo: i carabinieri gli consegnano un registratore e gli chiedono di raccogliere testimonianze riferite al delitto.

L’indagine condotta dal pluripregiudicato, confinato in Sardegna per sfuggire alla vendetta delle n’drine, va avanti per un mese e mezzo e non porta alcun elemento utile alla Procura. Ma a leggere la sentenza della Corte d’Assise con la quale è stato condannato a 24 anni e mezzo non si può dire che Varacalli sia rimasto con le mani in mano: col passare dei giorni semina indizi falsi per portare l’attenzione degli investigatori sui Baldussu. Convince un allevatore a raccontare di aver visto Raffaele Baldussu seppellire una pistola in un canalone poco distante dall’ovile. I carabinieri la troveranno grazie a un metal detector, non è quella usata per uccidere Corona ma l’involucro contiene anche una salvietta macchiata col sangue di Raffaele Baldussu. L’indagine chiarisce il perché: era stato Varacalli a prelevarglielo col pretesto di fargli un’analisi. Tutto torna, l’apparecchio usato dal pentito esiste, Baldussu dice la verità e accusa il pregiudicato di volerlo mettere nei guai.

Col tempo infatti Varacalli ce la fa: i sospetti del pubblico ministero si orientano sui Baldussu, Francesco viene arrestato come esecutore materiale dell’omicidio, il padre per aver nascosto l’arma del delitto, che però non è quella ritrovata. Il resto della storia è scritto negli atti processuali: i Baldussu vengono assolti per non aver commesso il fatto dalla Corte d’Assise di Cagliari ed è il presidente Claudio Gatti, sentita la compagna di Varacalli, a disporre che la Procura proceda contro il pentito calabrese. Ogni dato processuale conduce a lui. Malgrado questa svolta, il pm Pili apre l’inchiesta su Varacalli ma ricorre in appello contro l’assoluzione dei Baldussu, ipotizzando che abbiano comunque preso parte all’omicidio. Il secondo giudizio conferma l’estraneità dei Baldussu al delitto mentre un’altra Corte d’Assise sancisce che l’assassino è Varacalli. Lo stesso pm che aveva chiesto per due volte la condanna dei due allevatori si mostra in pieno accordo con la Corte: «Cosa sia successo all'ovile non lo sapremo mai. Sappiamo che Varacalli c'è andato ubriaco, stravolto, armato di una pistola e arrabbiato perché gli stavano rubando le pecore. È lui che lo ha ucciso e poi ha pagato anche i funerali. Questo sarebbe un collaboratore di giustizia? È solo un cinico, bugiardo e abile manipolatore». (m.l)

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