La Nuova Sardegna

Sassari

viaggio nei mestieri

A Osilo “su casu cottu” come vuole la tradizione

di Mario Bonu
A Osilo “su casu cottu” come vuole la tradizione

OSILO. «È un po' più piccolo dei classici pecorini sardi, più stretto di diametro e più alto di scalzo. La crosta è sottile e di colore giallo paglierino… ». Sono pura poesia, le note che Slow Food...

20 gennaio 2013
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OSILO. «È un po' più piccolo dei classici pecorini sardi, più stretto di diametro e più alto di scalzo. La crosta è sottile e di colore giallo paglierino… ». Sono pura poesia, le note che Slow Food dedica al pecorino di Osilo, uno dei sei “presìdi” della Sardegna. Ed è l’orgoglio e la vera eccellenza locale, “su casu cottu” conosciuto ed apprezzato dai palati più raffinati. Anche per questo, nel panorama dei mestieri antichi a rischio di estinzione, quello della produzione del formaggio è uno dei pochi in cui è ancora possibile lavorare non solamente per mera testimonianza, ma anche per la produzione di reddito vero. Non è un caso che a Osilo, nonostante la crisi del settore, vengano censiti ancora 23.403 ovini e 92 allevamenti. Così come non è un caso che negli ultimi anni sia andata aumentando la trasformazione del latte in azienda. Oggi sono otto i mini-caseifici operanti a Osilo. Fra questi, quello di Giuseppe Migheli, uno dei pochi che “si ostina” ad applicare in toto le tecniche tradizionali, ivi compresa quella della pressatura. Giuseppe lavora dai 500 ai 600 litri di latte al giorno. Il latte nel paiolo viene portato alla temperatura di 35 gradi, poi viene fatto riposare per trenta minuti, il tempo necessario per la formazione del coagulo. A quel punto si “rompe la cagliata” e si riporta la temperatura a 43/46 gradi, rimescolando continuamente. Si lascia riposare ancora per 15 minuti, e poi si procede ad “aballonare” (compattare il formaggio con le mani per avere un unico blocco). Il “ballone” viene diviso in tante parti corrispondenti alle forme, e viene messo sotto la pressa per 7/8 ore (la variabile dell’altro sistema che si è andato diffondendo negli ultimi tempi, è che a questo punto, anziché sotto la pressa il formaggio viene messo nella “camera calda”, per la “stufatura” fino al raggiungimento del Ph giusto). Il penultimo passaggio è quello del bagno nella salamoia, per 24 ore, ed infine, la stagionatura. Giuseppe Migheli ha iniziato da ragazzino a fare il formaggio col padre. A vent’anni (adesso ne ha 47) si è messo in proprio ed ha fatto crescere il gregge da 150 alle 600 pecore attuali. Con un’azienda a conduzione familiare, è uno dei pochi che non si è mai fatto allettare dalla scelta assai più comoda del conferimento del latte, ed ha sempre lavorato in proprio l’intera produzione. «Così – dice Giuseppe – con una politica che punta alla qualità del prodotto e al contenimento dei prezzi, col tempo ho potuto estendere e consolidare la rete dei miei clienti, che ora arriva anche al continente e alla Germania». E così, l’azienda di Giuseppe Migheli, nonostante le difficoltà generali, continua ad avere una domanda superiore alla produzione. Una “buona prassi” che incoraggia sulla strada della conservazione delle attività tradizionali.

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