La Nuova Sardegna

Sassari

A Osilo non risuonano più “sas cascias”

di Mario Bonu
A Osilo non risuonano più “sas cascias”

Continua il viaggio negli antichi mestieri del paese: il declino inesorabile della tessitura a telaio

27 gennaio 2013
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OSILO. C’è stato un tempo in cui, a Osilo, non c’era casa dove non si sentisse il ritmico battere de “sas cascias” del telaio tradizionale. Vittorio Angius ricorda come intorno al 1845, in cima al Tuffudesu si contassero «non meno di 900 telai (su 990 famiglie ndc), tra quali almeno 500 in continua attività per la tessitura del lino e della lana». E Gerolama Carta Mantiglia riporta la testimonianza della giornalista Margherita Cattaneo, de “La Nazione” di Firenze, che scrive a metà degli anni Trenta del ‘900, e secondo la quale “a Osilo non si può dormire per i tonfi sordi… Sono i telai dell’orbace. Tutta Osilo fila e tesse”.

Prima tele di lino, panni di lana, coperte; poi, negli anni Trenta, l’orbace. Una attività fiorentissima, tratto distintivo e vanto delle donne osilesi, che purtroppo ha conosciuto un declino apparentemente irreversibile. Chiuso nel 2008 l’ultimo presidio della tessitura locale, il Laboratorio artigianale, spentesi nel tempo le ultime pioniere di un’arte raffinata ed esclusiva, oggi a Osilo sono davvero pochi i telai rimasti. E nella maggior parte dei casi, più come pezzi di affezione che come strumenti di produzione. Lo conferma Luigina Canu, una delle ultime sopravvissute di una razza ormai pressoché estinta. «Il telaio non lo uso praticamente più – dice – da tempo è diventata una attività antieconomica dove a malapena si pagano i consumi». Ed i conti sono presto fatti: «uno scendiletto da 60x130 – precisa Luigina Canu - lo si vendeva a non più di 70 euro. Se considera che ce ne vogliono almeno trenta di materiale e quattro giorni di lavoro, è facile capire quale sia la convenienza ».

E dire che ancora a metà degli anni Settanta le cose andavano in maniera diversa. «Allora il lavoro rendeva – conferma Luigina Canu – a parte l’Isola che faceva da collettore per i suoi centri, per le altre tessitrici di Osilo c’era un commerciante di Sennori che acquistava i tessuti per la vendita in loco e per l’esportazione». La tecnica prevalente era quella della tessitura “a riccio”, ma venivano usate anche quella “a illitadura” e “a puntu passadu”. «Ma ormai le giovani non ne voglio più sapere», aggiunge Luigina Canu. Considerazioni amare, che lasciano poco spazio anche all’ottimismo della volontà racchiuso nelle formule delle “nuove tradizioni” o dei “mestieri ritrovati”, con cui pure il Comune ha tentato di dare nuova linfa alle lavorazioni tradizionali. «Bisognerebbe motivare le ragazze – conclude la tessitrice – prevedere corsi e sostegni pubblici che consentano di non perdere un’arte così importante per Osilo». E forse bisognerebbe anche immaginare soluzioni che salvassero i valori intrinseci e la qualità della tessitura osilese, ma ne rendessero più produttivo l’esercizio. Soluzioni da qualcuno prospettate nel passato – tipo il telaio meccanico/artigianale – ma rigettate in nome della purezza della tradizione, il cui unico esito, però, rischia di essere purtroppo l’estinzione.

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