La Nuova Sardegna

Sassari

appello per la comunità di sorso

La suora dei detenuti «Senza aiuto né fondi costretta a chiudere»

di Elena Laudante
La suora dei detenuti «Senza aiuto né fondi costretta a chiudere»

SASSARI. «In Sardegna ci sono 12 istituti detentivi, e hanno costruito altre 4 carceri. Nessuno ha pensato a una struttura per misure alternative. E io non ce la faccio più: le istituzioni, la...

13 febbraio 2013
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SASSARI. «In Sardegna ci sono 12 istituti detentivi, e hanno costruito altre 4 carceri. Nessuno ha pensato a una struttura per misure alternative. E io non ce la faccio più: le istituzioni, la politica, tutti ci hanno abbandonato». Non ha il sapore della lamentela il tono di suor Maddalena Fois, ex garante dei detenuti, temprata com’è dalla fatica di costruire, dal nulla, una casa d’accoglienza. Accoglie «gli ultimi degli ultimi», quelli che sono tra il carcere e la vita pronti a tornarvi, magari ai domiciliari, per scontare l’ultima parte della pena, e che non hanno famiglia, un posto dove stare. Da 10 anni, queste persone trovano riparo in una palazzina a venti passi dalla spiaggia di Marritza, Sorso, circondata da erba e sabbia. Non ci sono altri posti così, in Sardegna, se non la comunità Il Samaritano di Arborea, decimata dall’arresto di don Giovannino, il suo fondatore. L’esterno è grezzo, ma il cuore del caseggiato imbiancato solo nella parte bassa, è caldo, frutto della cura di questa vincenziana che da vent’anni si dedica ai detenuti. «Non ce la faccio più, sono vecchia, e da anni non riusciamo ad avere nemmeno un euro di contributi. Sono costretta a chiudere», spiega nel lanciare un appello a chiunque possa aiutare i suoi ospiti, i reclusi del centro d’accoglienza “Giovani in cammino”, fondato e portato avanti da suor Maddalena. Ora ce ne sono 4, ma dal 2002 per Marritza sono passati almeno 250 “semi-liberi”, detenuti speciali che potevano lasciare le squallide celle di San Sebastiano o delle altre carceri dell’isola per attendere la completa libertà in questo caseggiato vista mare, sulla statale tra Sassari e Castelsardo. La suora vicina ai carcerati è sull’orlo di gettare la spugna. Energie ne ha ancora, tanto che la settimana scorsa i suoi 71 anni non le hanno impedito di andare nei bracci di via Roma a portare agli involontari inquilini frittelle di Carnevale. Ma non sono le energie fisiche quelle che vengono a mancare. È la consapevolezza di lottare da sola, senza alcun aiuto, senza risorse che diano un senso alla permanenza dei detenuti nella casa sul mare. «La Regione, anni fa, ci aveva dato finanziamenti per realizzare una bella falegnameria. E grazie alla Camera di Commercio di Sassari, era utilizzata per corsi di formazione per i detenuti, che alla fine ricevevano anche un attestato. Ma ora non abbiamo più soldi per pagare il falegname, né operatori né formatori. Anche qui, come in carcere, i reclusi dovrebbero trovare riabilitazione, non solo punizione. In queste condizioni, però, non è possibile». Anche chi investe una vita nel donare un po’ di speranza ai disperati e alla fine si accorge di essere rimasto solo, è costretto a demordere. Soprattutto quando il sistema che si finisce col conoscere, rivela così bene le sue crepe. «È incredibile che molti in questo Paese parlino del sovraffollamento delle carceri, ma nessuno faccia qualcosa di concreto», nota la religiosa. «Com’è possibile che non ci si renda conto di come le carceri siano un costo per tutti, mentre far lavorare i detenuti aiuta loro, gli altri e porta vantaggi all’economia?». Ecco perché la sua comunità non chiede sussidi pubblici da elemosina, ma propone progetti. Da poco aveva chiesto alla Regione di realizzare due serre, in modo da formare agricoltori e magari, chissà, sfruttare quest’onda di ritorno ai campi che sta investendo anche molti giovani. Chiedeva poco, la suora dei carcerati: 35mila euro. Eppure Cagliari glieli ha negati. «Ho bussato a tutte le porte, tutti mi ripetono che non ci sono soldi. Finora siamo andati avanti con l’aiuto delle persone generose, e ce ne sono tante, e con la Provvidenza. Ma non si può più. Con questa crisi anche la carità diminuisce». A chi le fa notare che forse la congiuntura economica sfortunata si riverbera sui detenuti come su chiunque altro non navighi nell’oro, quasi ha un sussulto. «Com’è possibile che queste persone stiano peggio di così? Lo sa che quando sono entrata in una cella, ho pensato che se una madre vedesse lì dentro suo figlio, morirebbe di crepacuore?». Ci dev’essere molto di vero, se in questi 10 anni a Marritza il cancello è sempre rimasto aperto: «Nessun detenuto è mai scappato da qui», dice concedendo l’unico sorriso. Ma pure un paradiso può chiudere per bancarotta.

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