La Nuova Sardegna

Sassari

L'agonia del primo ippodromo sardo, persi 300 posti di lavoro

Giacomo Mameli
L'agonia del primo ippodromo sardo, persi 300 posti di lavoro

Il presidente dell’impianto di Chilivani: «Fino a cinque anni fa tutti i 270 box erano occupati, ora ci restano 70 cavalli» - FOTO

18 marzo 2013
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OZIERI. Camminando «a passi tardi e lenti» per le piste desolatamente vuote dell'ippodromo di Chilivani – una delle griffes non solo sportive della Sardegna – ricorda i suoi maestri d'equitazione, i due nonni che cavalcavano come olimpionici nelle campagne di Nurallao, pieno Sarcidano. «Avevano acquistato due fattrici da un allevamento di Bonorva, erano elegantissimi in sella. Mio nonno paterno, combattuta la guerra del '15-'18, aveva mandato la sua cavalla baia Nina alla marcia dei sardisti su Sassari guidati da Emilio Lussu. Ma il vero campione, era uno zio materno, Paolo Orgiu: in groppa a un anglo arabo correva come un missile. E zio Paolo divenne un mito».

Ci si deve consolare con i ricordi guardando le cifre di un impianto sportivo che, da orgoglio secolare di Ozieri, del Logudoro e di tutta l'Isola, si è trasformato in un deserto verde dove quasi non si vede traccia né di cavalli né di cavalieri. Francesco Sionis, 68 anni, ex presidente dell'Istituto per l'incremento ippico e ora al vertice dell'ippodromo di Chilivani, consigliere nazionale dell'Unire, uno dei conoscitori più documentati del mondo dei cavalli in Europa, denuncia: «Da sette anni su questo impianto si è abbattuto un meteorite che tutto ha sepolto, o quasi. E il meteorite è partito dalla rampa di lancio della Regione che ha colpevolmente cancellato una delle nostre eccellenze. La sordità è totale. Ma non difetta solo l'udito».

Le cifre di Sionis. «Negli anni d'oro, fino al 2007, le giornate di corsa erano 32 con punte arrivate a 37. Era un viavai di fantini e tifosi, anche cinquemila spettatori, per una media di due-tremila appassionati. Giornate di festa. E Ozieri viveva. Quest'anno siamo precipitati davvero in basso: abbiamo programmato undici giornate, per ogni giornata sei corse. Tradotto in percentuale il calo è stato del 65,9 per cento, forse anche di più perché nel 2007 le manifestazioni erano anche sette al giorno. Il montepremi da un milione e 770mila euro si è elemosinizzato a 445mila euro». Qualche altro numero per capire la portata di un disastro studiato a tavolino dai politici e dai funzionari di viale Trento a Cagliari e che ha pesanti ripercussioni su una zona interna dove le ciminiere non svettano. «Fino al 2008 i nostri 270 box erano tutti occupati. Avevamo una vera e propria lista d'attesa. Oggi siamo a secco, di cavalli ce ne sono 72, tutti dei titolari dei colori di scuderia. Negli anni d'oro in Sardegna erano 307, l'80 per cento dei quali della provincia di Sassari, Ploaghe svettava su tutti, seguito da Ozieri e Bonorva». Questo calo di presenze ha ripercussioni pesanti sull'occupazione. Ancora Sionis: «Per ogni cavallo presente in un ippodromo si calcola la media di 1,8 posti di lavoro. Il che, adattato a questo impianto esteso su 32 ettari di buona terra, vuol dire che da 450 buste paga siamo passati a poco meno di 120 con un danno pesantissimo per l'Ippodromo e per l'indotto che gli ruota attorno: allevatori e maniscalchi, veterinari e allenatori, fantini e trasportatori, contadini che forniscono l'avena e la paglia per le. lettiere, per non dire del lavoro per bar e ristoranti».

Un flusso di denari che è diventato un patto di instabilità passando da un giro d'affari medio di 17 milioni di euro a poco meno di cinque milioni all'anno. «Con una svalutazione fortissima anche della quotazione dei cavalli la cui compravendita – dice Sionis – si è più che dimezzata in valore».

Le cose non vanno certo meglio in campo nazionale dove la distrazione politica verso un settore da made in Italy è colpevole. «Non esistono né programmi né idee e i nostri numeri sono inferiori a quelli di un solo allevatore tedesco. Stare fermi significa avviarsi inesorabilmente verso il declino». Sionis cita il caso della Germania dove "dagli anni '70 ad oggi il numero dei cavalli – oltre un milione – si è triplicato. Quadruplicati i cavalieri. E attorno è nata una ricca industria: per ogni quattro cavalli è assicurato un posto di lavoro, nove volte in più di quanti sono in Germania i minatori di carbon fossile, e senza alcuna sovvenzione».

Nelle scuderie e nei prati del campione nazionale tedesco Paul Shockemoehle vivono 2400 cavalli, quasi mille in più di quanti ne nascano ogni anno in Italia. I numeri sono analoghi in altri Paesi europei, come l'Olanda, il Belgio, la Francia, la Svezia. Ma l'Italia – con la Sardegna che non fa eccezione – non sente queste campane. Ha perso una fonte sicura di reddito. All'interno della World Breeding Federation l'Italia è l'unico Paese che non ha pubblicato il libro genealogico e che non ha neppure un logo che la contraddistingua, la Germania ne ha venti». Le cose non sono state sempre così nere. Non solo Chilivani ha vissuto la sua età dell'oro ma la stessa Sardegna era diventata una regione-caposcuola. Sionis segnala le conclusioni di una indagine conoscitiva del Senato sull'ippicoltura italiana, anno 1992. Dopo aver ricordato che «all'origine delle più famose razze europee hanno concorso i riproduttori degli allevamenti dei Gonzaga di Mantova e dei Borboni di Napoli» il Senato notava il flop italiano («su 17mila cavalli agonisti bel 11.550 sono stranieri» e «l'import dei cavalli è stato di oltre 171mila capi mentre l'Italia ha esportato appena 257 esemplari»).

Tralasciamo altre cifre da vergogna nazionale e leggiamo la Sardegna con occhiali rosa. Citando la creazione nell'Isola dell'Istituto per l'incremento ippico, la commissione scriveva: «Molte regioni si sono accorte dell'ippicoltura solo al momento di disciplinare le tasse sulle concessioni regionali. Fa eccezione la Sardegna che ha sempre mostrato particolare attenzione per l'allevamento ippico e che dal 1969 si è dotata di una legge organica che disciplina l'intervento regionale nel settore. Tale legge può essere considerata un valido punto di riferimento per il legislatore regionale nel resto d'Italia». Era la Sardegna della Prima Autonomia, meno distratta, meno incompetente, non certo mediocre come è giudicata la classe dirigente di oggi. Per convincersene basterebbe sfogliare il libro “Chilivani, ottant'anni di ippica in Sardegna”, di Diego Satta (vicepresidente dell'ippodromo) con l'iconografia curata da quel genio dell'obiettivo che è Salvatore Ligios, nato e residente in una della patrie del cavallo, Villanova Monteleone. Si riscoprirebbero i fasti, con Bicicletta galoppatrice di Ozieri, Abbajan Sciarrak, stallone arabo capostipite, il derby-day alla presenza del re Vittorio Emanuele (lo documenta una foto dell'archivio della Nuova Sardegna), le immagini del capitano Bruno Vanzi direttore del Deposito Stalloni per arrivare ai successi del “tempio sardo dell'ippica” fino al 2007.

Poi il crollo. Che per Sionis, nato quasi a cavallo a Nuragus, fantino a Cagliari dove ha frequentato il liceo classico e l'università laureandosi in Sociologia, è proprio «una catastrofe per la Sardegna». Ed è un guaio per chi di cavalli ha vissuto: presidente dell'associazione equestre “Fausto Noce”, leader dell'Ipi, vicepresidente nazionale del Fondo internazionale per l'allevamento e ancora titolare di affisso “del Menhir”. Con Menhir una volta escluso dal Palio di Siena “per manifesta superiorità”. Gran Premi e corse classiche in Sardegna, Grosseto, Siena, Corridonia, Novi Ligure. Con l'orgoglio dei fantini sardi campioni (cita i Ligas di Orroli e i Demuro di Villanovatulo). Ma è un medagliere che non basta a chi dovrebbe stanziare un milione di euro l'anno per ridare lustro a Chilivani.

Queste grigie giornate di metà marzo incrementano i tormenti di un ippodromo che teme la serrata. Se ne accorgono un po' tutti. Al bar “Paglia e fieno” a pochi passi dagli impianti due giovani fantini di Ozieri fanno sintesi con una frase lapidaria, da inviare a Cagliari in viale Trento: Chie cheret ochire sos caddos, ochit sa terra nostra. Testo a fronte: «Chi vuol cancellare l'ippodromo di Chilivani uccide i cavalli. E uccide anche la Sardegna».

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