La Nuova Sardegna

Sassari

La “risolza” del coltellinaio di Osilo

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La “risolza” del coltellinaio di Osilo

Ico Mucedda interprete da trent’anni di un’abilità tutta sarda nel realizzare lame artigianali

02 aprile 2013
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OSILO. Esistono mestieri che, nel sentire collettivo, si ritengono appartenere solamente a località ben precise. Tale è, ad esempio, quello del coltellinaio, che si pensa quasi esclusivo di Pattada o di Guspini. Ed in effetti, quelle sono le scuole rinomate dei mastri coltellinai, che non a caso hanno dato il nome ai rispettivi coltelli a serramanico, “pattadesa” e “guspinesa”. Ma la storia dei popoli è storia di lame perché tutti i giorni si tagliava, si scuoiava, si incideva. E ci si difendeva, quando anche non si attaccava. Così, seppure in maniera a volte sotterranea, frammentaria, la cultura della lama ha attraversato stagioni e generazioni.

A Osilo questo è successo una trentina di anni fa, a casa di Ico Mucedda. «Fu come una specie di rivelazione – ricorda l’uomo, che è poi diventato un bravissimo coltellinaio – mi capitò di smontare una vecchia pattadese per cercare di rifarle il manico. Presi a copiare da un altro coltello, provai a capirne la logica e i segreti, e mi ritrovai catturato da quella che poi sarebbe diventata la passione della mia vita». Prima da autodidatta, un po’ copiando un po’ intuendo le soluzioni che un’arte tanto raffinata richiede, Ico raggiunge presto un alto grado di abilità nella lavorazione del corno e dell’acciaio, e nell’assemblaggio delle diverse parti. Ma a quel punto gli capita di conoscere un mastro coltellinaio di Pattada, che gli svela gli ultimi segreti del mestiere per consentirgli di affinare ancora di più la sua tecnica e il suo gusto.

«Complessivamente - ricorda Mucedda - i miei coltelli andavano già bene, ma quella scuola mi servì soprattutto per perfezionare le tecniche della lavorazione del corno e dell’anello che chiude lo snodo del coltello, la parte più difficile e impegnativa. La prima operazione, nella realizzazione di un coltello a serramanico, consiste nella scelta e nel taglio del corno – di norma di ariete – da cui si ricaverà il manico.

«Il corno si sceglie sulla base del coltello che si vuole realizzare – dice Ico Mucedda – lo si taglia e lo si raddrizza a caldo, con una pressa». A quel punto, con una dima si disegna sul corno la forma del coltello, si modella il manico e si realizza l’archetto interno, che serve a dare solidità al tutto e che verrà fissato fra le due facciate del manico con dei ribattini in ottone. Una volta assemblato il manico, dopo averne sagomato l’incasso, si realizza l’anello, in ottone o alpaca. Poi tocca alla lama. Anche in questo caso, il lavoro richiede abilità e pazienza, perché partendo da un pezzo di acciaio grezzo, attraverso il taglio, la sgrossatura, la limatura, la levigatura, si arriva ad ottenere la lama desiderata, che poi va temprata e fissata al manico con un chiodo ribattuto. I passaggi finali riguardano la lucidatura del tutto, con diversi tipi di carta e pasta abrasiva, per arrivare ad ottenere, dopo 25/30 ore di lavoro, una magnifica “risolza”. Che, se si è usato l’acciaio “Damasco” - due strati saldati a caldo e ripiegati anche fino a mille volte - ha una lama dalle imprevedibili volute artistiche. Perciò, alla domanda se ci sia uno dei coltelli a cui tiene in modo particolare, Ico Mucedda risponde «sono orgoglioso di ogni coltello, ciascuno ha una storia e una sua «anima» particolare». (m.b.)

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