Ambulante pestato, in aula depongono i testi della difesa
SASSARI. Due anni fa, in aula, l’ambulante marocchino aveva riconosciuto i suoi aggressori e aveva raccontato ai giudici il calvario di quella notte tra il 5 e il 6 ottobre del 2009. «Erano almeno...
SASSARI. Due anni fa, in aula, l’ambulante marocchino aveva riconosciuto i suoi aggressori e aveva raccontato ai giudici il calvario di quella notte tra il 5 e il 6 ottobre del 2009. «Erano almeno una ventina, ci hanno massacrati di botte. Mentre ci picchiavano hanno detto cose che non voglio ripetere in quest'aula, perché sono troppo gravi, ma anche perché sono parole che fanno male ancora oggi».
Ieri, davanti al collegio presieduto da Pietro Fanile, si è celebrata l’udienza del processo che vede cinque giovani di Alà dei Sardi imputati di rapina, lesioni personali aggravate, danneggiamento, discriminazione e odio etnico e razziale. Si tratta di Antonio Scanu, Antonio Mazzone, Stefano Nieddu, Paolo Scanu, Filippo Doneddu. Altri due sono già stati condannati nel 2012 con rito abbreviato alla pena di quattro anni e mezzo.
Il marocchino raccontò ai giudici di quell’assalto razzista subìto vicino alle cumbessias di San Francesco che gli è costato due complicati interventi maxillo facciali e l’indebolimento permanente della vista a un occhio. Effetto di una bottigliata in pieno volto, «sferrata – aveva spiegato in aula – mentre chiedevo a quelle persone cosa volessero da me e da mio fratello». Il pestaggio si concluse con la rapina di 1500 euro e di qualche scatola di tessuti. La vittima, Bouazza, in Italia da 25 anni dove è cresciuto insieme a suo fratello Jad, aveva ripercorso quegli attimi: «Ci stavamo riposando dopo una giornata di lavoro. Verso l'una del mattino abbiamo sentito colpi al furgone. Siamo scesi e ho chiesto a quei ragazzi cosa volessero. Mi hanno colpito in piena faccia e, mentre cercavo di risalire a bordo del furgone, anche alla nuca con il calcio di una pistola». Arma che Bouazza, parte civile con l'avvocato Valentina Macis, sostiene di avere visto benissimo perché chi la impugnava la puntò contro di lui e contro suo fratello.
Ieri mattina hanno testimoniato alcuni testi citati da Mariano Mameli, uno degli avvocati della difesa. Due giovani allevatori che in sostanza hanno difeso Antonio Mazzone, uno degli imputati: «Eravamo alla barracca a San Francesco, Mazzone faceva il dj alla consolle». L’avvocato Mameli ha chiesto a entrambi se lo avessero mai visto allontanarsi da quel punto: «È rimasto sempre lì – ha sostenuto uno dei due – Siamo rientrati insieme a casa alle due del mattino». A un certo punto arrivarono i carabinieri. «Come mai?», ha chiesto loro il pm: «Per dirci di abbassare la musica. Solo l’indomani mattina abbiamo saputo quello che era successo perché in paese ne parlavano tutti». L’udienza è stata aggiornata al 19 febbraio. Il pm ha chiesto che venga acquisita la planimetria dei luoghi in cui avvenne il fatto. (na.co.)