«Ma quale schiava? Era la mia babysitter»
Processo “Osusu”: un’imputata nigeriana racconta il rapporto di amicizia con una delle vittime
SASSARI. Lo scenario delineato dal pubblico ministero era molto nitido. Un’associazione a delinquere finalizzata alla tratta, alla riduzione in schiavitù e alla prostituzione di giovani nigeriane. L’hanno definita l’operazione “Osusu”, perché così è chiamata la cassa comune dove finivano i proventi delle presunte attività illecite. Le maman accumulavano i soldi, li mettevano insieme, e li utilizzavano poi per comprare altre schiave da mettere sulla strada. Ieri mattina, però, in corte d’Assise, la parola è passata agli avvocati della difesa. E i legali Pinna Parpaglia, Pinna Nossai, e Serra hanno lavorato di zoom, focalizzando i dettagli, cioè pescando le singole storie da dentro il calderone. Sulla testa di Okon Mercy, ad esempio, pendono i 12 anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero. Lei, assieme al marito, sarebbe una delle maman che avrebbero messo in piedi l’organizzazione criminale. Lei si è presentata in aula, ha raccontato la sua storia, e poi ha mostrato ai magistrati una serie di foto. In una si intuisce il clima di festa, si sta celebrando il compleanno del figlioletto. E l’altra è stata scattata il giorno del battesimo dell’altro bimbo nato da pochi mesi. «Vedete la donna che tiene in braccio il bambino? – fa notare l’avvocato Pinna Nossai – è William Anita, cioè la ragazza che secondo l’accusa è stata ridotta in schiavitù e costretta a prostituirsi». Le immagini, invece, restituiscono uno spaccato del tutto diverso. «Con Anita ci conoscevamo da piccole – racconta Okon Mercy – qui in Italia mi ha fatto da baby sitter». Ed ecco la tesi della difesa: «Una persona ridotta in schiavitù non partecipa ai momenti più felici di una famiglia. I suoi aguzzini non la inviterebbero a un battesimo o a un compleanno. E soprattutto non gli affiderebbero durante la giornata il proprio figlio appena nato. Questo è un atto di estrema fiducia, non lo si può concedere a una donna trattata male, che potrebbe covare rancore e meditare vendetta». Gli avvocati però si soffermano anche sulla questione dei proventi dalla tratta delle donne. «Dalle intercettazioni si capisce che le maman avevano grosse difficoltà economiche. Alcune non riuscivano a pagare l’affitto, altre non erano in grado di spedire soldi in Africa per aiutare i genitori. E anche le cifre che compaiono nelle telefonate sono molto generiche: si parla di un importo di 11mila, che dovrebbe essere il prezzo di una prostituta. Ma non si specifica se si tratti di euro o della moneta nigeriana. Perché in questo caso staremmo parlando di 60 euro».