La Nuova Sardegna

Uomini contro carbone: l’emigrazione sarda nelle miniere belghe

di Umberto Cocco
Uomini contro carbone: l’emigrazione sarda nelle miniere belghe

Una serie di iniziative a Cagliari con la proiezione del film “Già vola il fiore bianco”

12 aprile 2016
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Con un film del 1960, che fu un caso nel 1994 quando finalmente uscì – e restò in programmazione per alcune settimane in 50 sale a Parigi – comincia domani a Cagliari una serie di iniziative, previste da aprile a maggio, che alcuni Comuni sardi dedicano all’emigrazione in Belgio. Emigrazione che che ha segnato quei paesi, ha cominciato a svuotarli, 70 anni fa, senza che si siano mai ripresi. “Già vola il fiore magro” (verso di una poesia di Quasimodo) è il titolo del film, di Paul Meyer, regista belga al quale il governo – che gliel’aveva commissionato – chiese indietro i soldi dell’anticipazione (e ritirò la pellicola). Ci sarà la figlia di uno di quei ragazzi domani a partire dalle 19 nella sala delle conferenze della Fondazione del Banco di Sardegna a Cagliari, con il sindaco di Ula Tirso (Ovidio Loi), Comune capofila di questo tentativo di ricordare, che organizza questa e le prossime manifestazioni insieme a “Paesaggio Gramsci” (neonata associazione per il Parco letterario dedicato ai luoghi di Gramsci), SardegnaSoprattutto, Lamas, le consulte giovanili di Ula Tirso, Nughedu Santa Vittoria, Neoneli, Samugheo, Sedilo.

IL PRIMO TRENO. Il primo convoglio carico di giovani maschi italiani, duemila, un centinaio di sardi fra loro, partì da Milano la sera del 12 febbraio del 1946. Erano stati reclutati dagli uffici di collocamento: i manifesti della Federazione carbonifera belga promettevano salari inimmaginabili allora altrove, il viaggio gratis, in 18 ore da Milano, sino alla bocca della miniera, un alloggio pronto, la possibilità di far seguire la famiglia. Ma era il disastro dell’immediato dopoguerra che portava la gente a crederci. La Sardegna sovrappopolata nelle zone interne, rispetto all’agricoltura e alla pastorizia impoverite, le aree minerarie sature a loro volta, fornirono migliaia di giovani contadini e pastori a questo scambio diseguale. Quanti furono?

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REGOLARI E CLANDESTINI. Oggi si fa comune affidamento su queste cifre: nel 1955 gli italiani nelle miniere belghe sarebbero stati quasi 47.000 su un totale di 65.000 stranieri e di 114.000 minatori, dunque poco meno della metà della manodopera dei bacini carboniferi. Ma l’impressionante flusso di regolari e di emigrati clandestini, la permanenza in miniera anche per brevi periodi di chi non ce l’ha fatta a restare ed è tornato a casa o ha scelto altri lidi, porta a 230.000 il numero degli italiani che tra il 1946 e il 1960 lavorarono nelle miniere belghe. Nel 1972 i sardi che sono ufficialmente in Belgio sono 18.903, rappresentano il 7% del totale degli italiani che vi si sono stabiliti. Si tratta di dati ufficiali. Sfuggono sicuramente coloro che non registrano all’anagrafe del Comune di provenienza il loro trasferimento.

PAESI SPOPOLATI. Anche l’emigrazione successiva agli accordi del 1946 non è registrata da dati certi, nonostante la gran parte degli emigrati venissero regolarmente assunti, con contratti che passavano dall’ufficio di collocamento. Ci sono paesi in Italia e in Sardegna che sono stati segnati per sempre da quell’esodo. Da Ardauli se ne andarono in 90, apripista il sindaco da poco eletto, il sardista Chicchinu Ibba, che al ritorno qualche decennio dopo si dedicherà all’assistenza dei minatori e a scrivere finalmente un libro che è una delle pochissime testimonianze scritte di quella vicenda, premiato dalla Fondazione archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Da Siniscola andarono via in seicentocinquanta. Lo storico Martino Contu sta coordinando una ricerca paese per paese.

I SOPRAVVISSUTI. Pochi hanno voglia di ricordare. Bisognerà interrogarsi anche su questo. I minatori della prima ondata hanno 90 anni, suppergiù, i non molti sopravvissuti. Il regista Simone Cireddu sta provando a raccogliere testimonianze, ma vengono fuori a fatica. Barbara Pinna, figlia di un minatore di Zuri, ricorda quanto poco il babbo parlasse di quegli anni, e mai della miniera. Mostrava le foto di se stesso tutto elegante per le vie di Mons la domenica, basta. La rivista Studi Emigrazione ha dedicato un numero a quello che l’autore di uno dei saggi, quello su Marcinelle, chiama «il governo della memoria».

CUSTODIRE LA MEMORIA. Quando lavora la memoria, cosa ricorda, cosa rimuove, cosa la sollecita, o la scoraggia. E chi ricorda? Le persone che hanno vissuto quelle esperienze, le loro famiglie? E chi è rimasto in paese, assistendo al proprio declino, come ad Ardauli? È come se non ci fosse la forza nemmeno per ricordare, sembra, a volte. La forza, l’intelligenza, per suscitare memoria, raccoglierla, organizzarla, tramandarla, farla diventare storia. Le migrazioni sono la storia di chi è andato via per restarsene altrove per sempre o è tornato, ma anche di chi è rimasto, e le ha subite magari credendo di essere fortunato a restare. È la storia dei luoghi della partenza e dell'arrivo. Sarebbe anche una bella chiave interpretativa della vicenda delle classi dirigenti, nella piccola dimensione e in quella più grande. Merkel sì, oggi, e ieri De Gasperi, ma anche i sindaci del Barigadu, i docenti delle scuole.

NELLE CANTINE. Non tutto fu tragedia, ovviamente. «Per due convogli che andavano, uno tornava», secondo la testimonianza di Pasquale Zaru, 91 anni, emigrato da Sorradile, ora a Bidonì. Tornavano i tanti giovani che non se la sono sentita più di restare alla vista dei pozzi, delle “cantine” (parola belga che significa mensa) nelle quali sarebbero dovuti andare a vivere, e che in realtà erano gli hangar nazisti utilizzati durante la seconda guerra mondiale per i prigionieri sovietici. Nei pozzi le condizioni di lavoro erano disumane; prima della tragedia di Marcinelle, nel 1956, non erano in dotazione nemmeno le maschere antigas.

SALARI DA FAME. Si lavorava per otto ore, e poi spesso soprattutto gli italiani si prestavano a fare un secondo turno, in cunicoli stretti, alti a volte solo 40 centimetri, a temperature anche di 45 gradi, sdraiati su un fianco con il martello pneumatico imbracciato, mentre una candela illuminava la scena. Alla consumazione dei pasti erano dedicati 20 minuti. Il salario medio si aggirava, all’inizio degli anni ’50, tra i 220 e i 350 franchi al giorno. Le ferie venivano calcolate sulla base dei giorni lavorati nell’anno precedente. Dai 6 giorni all’anno del 1948 si passò ai 12 e poi ai 30, grazie all’intervento dei sindacati.

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