La Nuova Sardegna

Cina

Il cielo non è dalla parte di Xi Jinping

di Plinio Innocenzi
Il cielo non è dalla parte di Xi Jinping

I cinesi iniziano a stufarsi del nuovo Mao

04 dicembre 2022
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L’Armonia Celeste che da secoli è il paradigma che regola lo svolgersi degli eventi in Cina è stata turbata. I segni che il Cielo è avverso agitano i sogni del neo imperatore cinese, Xi Jinping, che chiuso nei suoi quartieri a ridosso della città proibita emana implacabile i suoi editti secondo i quali la Cina deve continuare ad essere isolata dal mondo e i suoi cittadini imprigionati a centinaia di milioni nelle loro case.

La superiorità del modello cinese di Stato autoritario ma saggio, secondo la tradizione confuciana che pone l’interesse collettivo come bene supremo, non può essere messa in discussione. La realtà stessa, un virus incontrollabile nella sua diffusione, deve piegarsi alla forza e verità del pensiero del novello Grande Timoniere, il nuovo Mao, che incurante del passare del tempo vuole esercitare il controllo assoluto su un miliardo e mezzo di persone. Lentamente ma inesorabilmente, aiutato dalle nuove tecnologie tutte piegate al servizio del potere, ha chiuso i cittadini cinesi in una trappola dalla quale è difficile uscire. In Cina non esiste la libertà di stampa, di opinione, di manifestazione, di dissenso, di movimento, di professare liberamente una religione, di leggere libri o vedere film non ammessi dalla censura di regime, di navigare su internet e avere liberamente accesso all’esterno e scambiare dati scientifici. Questa è la Cina di Xi, che vorrebbe proporre al resto del mondo il suo modello di socialismo con caratteristiche cinesi.

La propaganda del partito comunista ha martellato sin dall’inizio della pandemia i cinesi raccontando quanto fossero stati più bravi dei decadenti occidentali che non erano capaci di proteggere i propri cittadini dal coronavirus. Nel frattempo le scelte di Xi hanno fatto entrare in crisi il sistema cinese. Non è l’unico sistema autocratico in difficoltà, per la verità neanche Putin e gli Ayatollah se la passano troppo bene. Le immagini che ci arrivano dalla Cina ci mostrano cittadini in rivolta in molte località cinesi che per la prima volta mettono in discussione l’autorità del partito e la stessa leadership di Xi. Neanche durante la rivolta di Piazza Tienanmen si era arrivati a tanto. In quel caso infatti, studenti e cittadini chiedevano maggiore democrazia e aperture, ma non mettevano in discussione il partito, lo volevano cambiare. Dopo tre anni di quasi prigionia collettiva, disoccupazione giovanile fuori controllo, crisi immobiliare, impossibilità di rapporti con l’esterno, la follia di questa situazione ha creato un malcontento mai così ampio nel paese. Difficile illudersi però che le cose possano cambiare. Semplicemente il regime userà tutti gli strumenti di cui dispone, le centinaia di milioni di telecamere a riconoscimento facciale, gli arresti in massa e le detenzioni illegali per reprimere ogni dissenso. Quello che sta succedendo non va però al tempo stesso sottovalutato perché il Mianzì, la faccia, in senso lato la reputazione e l’onore di una persona sono tutto. Secondo un famoso proverbio cinese: «Gli uomini non possono vivere senza faccia così come gli alberi non possono vivere senza corteccia».

Il neo imperatore sta perdendo la faccia e quindi anche il mandato del cielo per governare il paese. La storia cinese è costellata di repentine rivolte che come una grande marea travolgono dinastie e riscrivono il solco della storia. È proprio questo che spaventa la dirigenza cinese, che all’inizio della pandemia ha agito in modo efficace ma è poi rimasta imprigionata nel la trappola ideologica per la quale la quarantena era la strategia di Xi. La chiusura della Cina al mondo è un corso e ricorso della sua storia, un tentativo di tenere i pericoli fuori della porta nella convinzione che il Paese abbia già tutto quello di cui ha bisogno. Neanche l’occidente può però illudersi che isolando la Cina e i suoi laboriosi, creativi e generosi cittadini possa trarne vantaggio. Non facciamo quindi gli stessi errori fatti con la Russia.

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