L’ex bandito Giovanni Farina si racconta: i rapimenti, il carcere, la poesia
Wikipedia lo descrive come criminale, poeta e scrittore italiano
Cagliari Ripercorrere la sua vita è come attraversare una terra di confine tra infanzia e latitanza, tra la Sardegna aspra della sua famiglia di pastori e la Toscana diffidente che negli anni Cinquanta guardava i sardi come stranieri. Per Giovanni Farina, che Wikipedia descrive come «criminale, poeta e scrittore italiano» nato a Tempio Pausania nel 1950, le montagne tra Firenze e Prato, dove da bambino aiutava suo padre con le pecore, furono probabilmente il primo carcere immaginario. Poi vennero quelli veri, con una condanna a Fine Pena Mai per sequestri di persona. «In realtà – precisa lui stesso, ora che ha regolato tutti i conti con la giustizia – sono stato dentro per 40 anni, 35 dei quali passati in regime di massima sicurezza». Eppure, tra una sentenza e l’altra, tra una fuga in Venezuela e un arresto a Sidney, tra il 41 bis e i processi, qualcosa ha continuato a muoversi: una parola, una poesia, una memoria. Lo stesso Giuseppe Soffiantini, l’imprenditore sequestrato dall’Anonima nel 1997, arrivò a pubblicare alcune sue opere in versi. «Pensare che fecero di tutto affinché mi accusasse del suo rapimento – commenta bofonchiando – ma lui disse sempre che io non c’entravo nulla. Era un galantuomo, Soffiantini, altroché».
Giovanni Farina, una curiosità prima di iniziare la nostra chiacchierata: lei sogna in sardo o in italiano?
«Io ho sempre sognato in sardo. È la mia lingua madre, anche se l’ho imparata in Toscana. E quando parlo in sardo perdo totalmente gli altri accenti».
In tutti questi anni di carcere per lei la poesia è stata una compagna di viaggio, un rifugio, oppure un modo per fare i conti con quello che le è successo?
«Facendo di mestiere il pastore sono per forza di cose un autodidatta, ma io ho sempre avuto la passione per la poesia e in generale per la letteratura. Poi in carcere, con tutto il tempo che avevo a disposizione, mi sono cimentato a scrivere. Ed è stato anche un modo per comunicare con l’esterno. Ora è una mia ragione di vita».
Quando prendeva carta e penna a chi pensava di rivolgersi? A se stesso, ai compagni, a qualcuno lontano, magari immaginario?
«In primo luogo alle persone a cui volevo bene che non potevo vedere. Poi mi rivolgevo a tutti quelli che mi tenevano in carcere da innocente. Comunque ho scoperto che tra i miei lettori ci sono molti intellettuali. In tutti gli istituti di pena in cui sono stato mi sono sempre battuto perché si facesse istruzione. E’ importante».
Scrivere significa anche ricordare. Ma la memoria può essere una ferita, a volte una condanna che si aggiunge a quella del tribunale.
«I miei ricordi erano per mia moglie e per mia figlia che ho visto pochissimo: ora è grande e vive negli Stati Uniti. Insomma, mentre scrivevo pensavo ai miei giorni felici».
Nei suoi libri ritorna spesso il tema dell’identità sarda e di quel pregiudizio che ha accompagnato tanti pastori arrivati dall’isola in Toscana. Lei l’ha provato sulla sua pelle? Ha mai avuto la sensazione di essere giudicato, prima ancora che per quello che aveva fatto, per il solo fatto di essere “sardo”?
«Inizialmente eravamo considerati stranieri. Ma con il tempo anche i toscani hanno riconosciuto che i sardi, grandi lavoratori, hanno salvato un’economia che stava scomparendo».
Ha sentito della polemica nata dalle parole di Roberto Saviano sulla criminalità sarda?
«Sì, ma io Saviano non lo considero proprio: secondo me è sopravvalutato. Ho vissuto con persone che lui ha calunniato, e come uomo non mi piace affatto: scrive utilizzando i verbali della polizia».
C’è chi dice che un ergastolano non dovrebbe più avere voce. Lei invece ha scritto libri, poesie, riflessioni. Cosa risponde a queste persone?
«Che prima di giudicare gli altri dovrebbero giudicare se stesse e fare un bilancio».
Lei ha scritto un libro sui femminicidi. Che idea si è fatto di questo fenomeno?
«Intanto che non è certo un’emergenza attuale. E poi che le donne sono spesso vittime dello Stato. Pensi alla poetessa francese Olympe de Gouges, che per il suo femminismo venne ghigliottinata. O alle giornaliste fatte morire di fame in Tunisia. O al delitto d’onore vigente in Italia sino a pochi anni fa. Detto questo, io sono cresciuto con quattro donne in casa e so bene quanto valgono».
Se oggi potesse decidere cosa far restare di lei – al di là dei reati e delle condanne – cosa le piacerebbe che restasse?
«Le poesie».
Si sente più Graziano Mesina o più Gavino Ledda?
«Nessuno dei due. Ma “Padre padrone” mi è piaciuto molto.
Per concludere, se dovesse scegliere una sola parola per raccontare la sua vita, quale sarebbe?
«Ora non saprei. Ma posso dirle che io nella mia vita ho sempre lottato, anche davanti alle avversità».
© RIPRODUZIONE RISERVATA