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L’intervista

I topi bevitori, le droghe, la “banda dei sardi”. Gian Luigi Gessa: «Io, scienziato e mamuthone con una vita piena d’amore»

di Andrea Massidda

	<em>(foto Mario Rosas)</em>
(foto Mario Rosas)

Neuropsichiatra cagliaritano noto in tutto il mondo, a 93 anni si racconta

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Capelli lunghi e candidi sparati verso il cielo, una carriera professionale che ha cambiato la neuroscienza italiana, scoperte entrate nei manuali, generazioni di ricercatori formati sino al momento di salire in cattedra. A novantatré anni Gian Luigi Gessa – cagliaritano purosangue e in quanto tale amante del mare e del windsurf – avrebbe mille motivi per godersi la pensione sulla spiaggia del Poetto. E invece ogni mattina, come ha fatto per oltre mezzo secolo, continua a infilarsi nel suo studio della Cittadella universitaria tra pile di articoli internazionali, immagini di scimmie che sbadigliano, topini che bevono cannonau e il busto bronzeo di Bernard Brodie, il grande farmacologo inglese che da giovane lo accolse negli Stati Uniti ai “National institutes of health” e di cui lui divenne uno dei più eminenti allievi.

Gessa, conosciuto in ogni angolo del pianeta per aver mostrato per primo come le droghe («cocaina, eroina e alcol in primis», sottolinea) imitino quelle che il cervello produce da sé, ha ricevuto premi ovunque, l’ultimo in ordine di tempo il Pericles international prize, appena consegnatogli dall’omonima academy che lo colloca ancora una volta nel gotha della scienza. Ma quando glielo si fa notare, solleva quella targa e sorride: «Sì, mi lusinga… però niente vale quanto il Mamuthone ad honorem che mi ha dato Olzai». La Sardegna, per lui, resta la radice più profonda e importante.

Professore, partiamo dal principio: in quale ambiente culturale è cresciuto?

«Mia madre era una maestra elementare, mentre mio padre era un impiegato delle Ferrovie dello Stato con una discreta cultura, laico che di più non si può. Non mi influenzarono molto, se è questo che vuol sapere: anzi, quando papà mi consigliava un libro, quello era l’ultimo che leggevo».

Ma lei da piccolo era una specie di Gian Burrasca?

«Assolutamente no. Ero un bambino vivace, ma educato, e come tanti miei coetanei giocavo anche al “dottore”. Tuttavia nel contempo vinsi persino un premio di catechismo e divenni araldino del Signore. Poi mi capitò di leggere i libri proibiti dai preti: Darwin e Galileo: il primo mi fece capire che noi umani abbiamo “parenti scomodi”, il secondo che l’uomo nell’universo è come un granello di sabbia nel deserto. Mi vennero dei dubbi».

Quando capì che la sua strada sarebbe stata la scienza?

«Non fu una scelta precisa. All’epoca, prima di scegliere una facoltà universitaria era normale valutare la serietà dei docenti, e a Cagliari quelli di Medicina mi sembravano i più credibili. Tre anni li passai a orientarmi: medico o ricercatore? Poi chiesi la tesi al professore che mi aveva affascinato di più, William Ferrari, giovanissimo cattedratico venuto da Modena, autodidatta ma geniale».

Di che cosa si occupò lavorando con lui?

«Ferrari aveva individuato una molecola in grado di provocare lo sbadiglio negli animali. Pubblicò persino su Nature. Il mio compito era appunto quello di capire se lo sbadiglio si producesse in tutte le specie: gatti di mia madre, conigli degli stazzi, galline… E in effetti tutti sbadigliavano».

È vero che le scimmie sbadigliano davanti allo specchio?

«Sì. Un maschio che si vede riflesso sbadiglia finché gli togli lo specchio. Una volta sbadigliai davanti a una scimmia che dovevo filmare: sbadigliò anche lei. Per un attimo sembrava mi sfidasse».

Perdoni la domanda, ma perché si sbadiglia?

«Non per ossigenare il cervello, come pensano molti. Lo sbadiglio è un atto vicino all’aggressività: aprire la bocca, mostrare i denti. Per tutti gli animali è una difesa antichissima contro il sonno quando arriva in momenti inappropriati e può essere pericoloso».

Dopo la laurea ha lasciato la Sardegna per gli Usa. Che cosa provò quel ragazzo sardo quando si trovò catapultato nei ricchissimi templi della scienza internazionale?

«Ai National institutes of health il mio capo era Bernard Brodie, che aveva scoperto come la reserpina svuotasse il cervello di serotonina: una rivoluzione. Mentre la mia grande intuizione personale fu invece che quei ricercatori non erano più intelligenti dei miei colleghi sardi: avevano soltanto molti più mezzi. E questo aumentò la fiducia in me stesso».

E infatti tornò a Cagliari, dove fondò una prestigiosa scuola di neurofarmacologia. Che cosa la rendeva così speciale?

«Chi veniva da noi trovava da mangiare, scientificamente parlando. I migliori, dopo un anno, li mandavo negli Stati Uniti o in altre università estere, come avevo fatto io. Qualcuno diceva malignamente: “Nell’Istituto di Gessa si passa dall’asilo alla cattedra”. Poi tanti di loro sono diventati la cosiddetta “banda dei sardi”, una definizione affettuosa: cattedre a Modena, Pisa, Siena, L’Aquila...».

Che tipo era nel ruolo di capo?

«Ironico, severo soltanto quando era davvero necessario. Ma da noi si lavorava e si rideva».

Lei è un luminare degli studi sulle dipendenze. Che cosa ha capito in ultima analisi?

«Che Freud aveva ragione: le droghe che assumiamo imitano quelle endogene. La morfina imita l’endorfina, la cocaina la dopamina… La droga produce un piacere più intenso di quello naturale, per questo “innamora”».

Anche le droghe endogene possono creare dipendenza?

«Sì, se sono eccessive o insufficienti. Troppa dopamina può portare a mania, troppo poca a depressione. Anche malattie come la bulimia sono legate a questo fattore, per esempio».

I suoi studi sull’alcol sono molto noti. Perché è così pericoloso?

«Perché agisce sul sistema del piacere. Con Giancarlo Colombo abbiamo selezionato i ratti bevitori, ormai comunemente chiamati Sardinian alcohol-preferring, cioè quelli che preferiscono l’alcol all’acqua. Accoppiando bevitori con bevitrici, i figli nascono bevitori. Siamo a 150 generazioni».

Ha avuto duri scontri con gli animalisti, vero?

«Abbiamo idee diverse. Noi ricercatori non vogliamo far soffrire gli animali. I ratti bevitori sono contenti, quelli usati per il sesso si accoppiano in una stanza a luci rosse».

Una stanza a luci rosse?

«Sì, la chiamiamo così perché i ratti non percepiscono il rosso e possono unirsi al buio mentre noi studiamo il loro comportamento. E comunque, stress sperimentale non significa ferite: può essere un rumore, un’altezza. Senza animali non avremmo capito nulla del cervello».

Oltre allo scienziato c’è il membro del Cicap, ossia cacciatore di bufale e illusioni. Quale credenza o fenomeno pseudoscientifico l’ha colpita più degli altri?

«L’omeopatia. Si fonda sul principio similia similibus curantur, ossia il simile cura il simile, che però in questo caso non significa nulla. Poi in Sardegna ho incontrato chi attribuiva tutte le malattie al sesso e chi curava disturbi tipicamente femminili ponendo una medaglietta della Madonna nelle parti intime delle pazienti. Per non parlare di chi picchiava i malati di Alzheimer. Sono pratiche pericolose».

Durante il Covid che idea si era fatto del movimento no-vax?

«Irrazionale. Nessuno nega che le case farmaceutiche siano potentissime e facciano guadagni spaventosi. Ma è bene ricordarsi che un tempo per ottenere e commercializzare un vaccino del genere ci voleva una vita di studi, mentre con le tecnologie attuali lo abbiamo avuto disponibile in un anno. Una benedizione».

Nel 2004 entrò in Consiglio regionale sostenendo politicamente Renato Soru. Perché?

«Aveva carisma e capacità. Avrebbe potuto avere un ruolo nazionale, a mio avviso, ma è stato ostacolato perché toccava interessi troppo forti: coste, sanità. È una persona per certi versi geniale».

Vi sentite ancora?

«Uhm... no. Francamente è da un bel po’ che non lo sento. Magari avrà altri interessi pure lui».

In molti la ricordano ospite al Maurizio Costanzo Show. Che esperienza fu quella al Teatro Parioli?

«Divertente. Una volta spiegai che la dopamina genera desiderio, anche erotico. E un cantante comico che era sul palco con me, tale Armando De Razza, ne ricavò al volo una canzoncina di successo: “Esperanza d'Escobar”. Costanzo era intelligentissimo e un grande talent scout».

Ha un difetto che i suoi studenti non conoscono?

«Non credo di avere veri difetti, dunque uno ce l’ho di sicuro: sono narcisista. Scherzi a parte, sono sordo. Una volta mi presentarono il medico del Giro d’Italia e io capii “dei genitali”. Parlammo a lungo senza comprenderci».

Per concludere, può rivelare il segreto per stare alla larga dalle droghe, siano esse illegali o legali?

«Avere un interesse, una passione. Insomma, innamorarsi moltissimo di una persona, della ricerca, dello sport, e persino del denaro, se uno vuole. L’importante è che il cuore batta. Come diceva Einstein: “Preoccupatevi delle cose di questa vita, tutto il resto… al diavolo».

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