La Nuova Sardegna

L’intervista

Eugenio Finardi: «Barone sa tirannia, il Biggest, De André e canto anche in sardo: qui sono a casa»

di Alessandro Pirina
Eugenio Finardi: «Barone sa tirannia, il Biggest, De André e canto anche in sardo: qui sono a casa»

Il cantautore milanese festeggia i 50 anni del suo primo album con un tour con tappa a Trinità

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Sassari Cinquant’anni fa il primo album di Eugenio Finardi, “Non gettate alcun oggetto dai finestrini”. Una cifra tonda che il cantautore milanese ha voluto celebrare con un tour, “Tutto ’75-’25”, partito una settimana fa da Tissi. Oggi 14 giugno sarà a Trinità d’Agultu, per poi tornare ancora in Sardegna, a Banari, l’11 agosto. Una scelta, quella di partire dall’isola, che sta a sottolineare il grande rapporto che lega Finardi alla Sardegna. Finardi, nell’isola lei è di casa.

Ricorda la prima volta?

«Penso fosse l’inverno del ’78-79 e venni per un concerto al Biggest di Samassi. Quello fu il mio primo incontro con l’isola, ma in realtà la mitologia della Sardegna mi apparteneva da molto prima. La sigla del mio programma a Radio Milano Centrale era “Barone sa tirannia” cantata dal coro di Orgosolo negli anni ’40. L’avevo trovata nella discografia di mio padre e me ne ero innamorato».

Sempre al Biggest di Samassi registrò l’ormai famosa puntata di Discoring con Madonna…

«Furono quattro giorni pazzeschi all’hotel Jolly di Cagliari. Non era ancora estate. C’era Roberto Benigni, che era l’ospite comico. Le star erano gli Imagination e tra gli italiani io con “Le ragazze di Osaka”. Gli esordienti, invece, erano Bryan Adams con la sua band e Madonna che aveva portato “Holiday”. Ricordo queste tavolate al Jolly hotel con Benigni e Bryan Adams. Madonna no, lei stava per i fatti suoi. Era esordiente, ma aveva già la truccatrice, la sarta: non le ho neanche mai parlato. Ma perché nessuno le dava retta...».

Quanti luoghi del cuore ha nell’isola?

«Io sono legato a quel triangolo che da Santa Teresa da una parte guarda verso Tempio, dall’altra verso Castelsardo. Una volta, era maggio, ed era un fiorire di ginestre, di mirto, boschi di rosmarino, e pensai: questo è il paradiso. Ma c’è anche un’altra cosa che mi è cara in Sardegna e non è un singolo luogo, ma sono tutti quei paesi dell’interno in cui si vive in maniera semplice e naturale. E infatti si campa 120 anni».

Ma lei cosa voleva fare da grande?

«Io sono nato per fare questo. Mia mamma era una cantante lirica e ha cantato per tutta la gravidanza. Non so a quanti mesi il feto sviluppi l’udito, ma io l’ho sviluppato sentendo la sua voce. Il primo disco l’ho inciso a 9 anni...».

Chi era i suoi miti?

«A 8 anni ero abbonato alla Scala, il mio primo disco fu di Domenico Scarlatti. Sono cresciuto con la musica classica. Poi a 13 anni in America - mia madre era di New York - ho scoperto il rock’n roll. A casa di mia nonna vidi nella tv in bianco e nero i Rolling Stones fare “Satisfaction”. Rimasi fulminato come John Belushi in “The blues brothers”. Da lì è cambiata la mia vita. Io sono cresciuto ascoltando classica e i dischi di mia zia del Newport folk festival, non sono mai stato esposto al jazz e non avendo la tv in casa neanche a Mina o Celentano».

La sua infanzia tra Milano e Boston: pensa mai a come sarebbe potuta andare se avesse scelto l’America?

«No, l’America no. Noi pensiamo di conoscerla, ma siamo completamente diversi. Hanno una mentalità, una visione della vita opposte alla nostra. In Italia si può essere più liberi... mai avuto quel pensiero».

Quando ha capito di avercela fatta?

«Glielo racconterò quando ce l’avrò fatta (ride, ndr). Non credo di avercela fatta mai del tutto».

Fine anni Settanta è il grande successo: Musica ribelle, La radio, Extraterrestre. Si sentiva una rockstar?

«Per un certo tempo sì. Ma veramente la gente pensa cose di te che tu fai fatica a sentire. A volte siamo così divinizzati che uno dice: dai, siamo seri! Fabrizio De André la pensava così. Una volta un tale gli stava baciando la mano lui la tirò indietro: non sono una santa reliquia».

De André era di famiglia 

«Era come un lontano cugino. Non abbiamo mai parlato di musica, ma di politica, vita. A unirci era Cristiano. Io feci la prima tournée di Fabrizio, aprivo con Lucio Fabbri: fu allora che scrissi “Musica ribelle”. Cristiano aveva 14 anni. Una notte scappò di casa da Genova e suonò al mio campanello: “Voglio venire a vivere con te”. L’ho messo a letto e ho chiamato Fabrizio. Da allora è nato questo rapporto che ci univa. Io e Mauro Pagani eravamo un po’ gli zii di Cristiano».

Quante serate all’Agnata…

«A dire la verità, più a Portobello o a Santa Teresa con Dori, all’Agnata solo in un paio di occasioni. Ricordo una volta che il capo della tenuta insegnò a me e a Fabrizio a fare gli innesti con le piante».

Cosa significava allora essere ribelli?

«Era un atteggiamento di sfida. Come direbbe Fabrizio, significava andare in direzione ostinata e contraria».

Oggi chi sono i ribelli?

«Chi non cede all’omologazione imperante. Oggi hanno tutti un look predefinito. Anche noi avevamo un uniforme: io ero un hippy, capelli lunghi fino alla schiena, primo orecchino di Milano, tanto da fare fermare il tram. Ma ci si mischiava di più».

Come visse il passaggio dagli anni ’70 agli ’80, con una scena musicale completamente rivoluzionata…

«L’ho sofferto, perché io sono uno che non ha mai amato l’immagine: io ero una radiostar. E poi ci fu la nascita di mia figlia Elettra con la sindrome di down. In un decennio in cui prevalevano il narcisismo e il rifiuto delle lotte anni ’70 io ero triste. Non è stato un periodo facile, ma ho fatto comunque canzoni che sono rimaste».

Dolce Italia, la vita è più vera, la gente più sincera: è ancora così?

«Chiunque stasera venga a Trinità se ne renderà conto: è ancora così. Io amo lavorare in Sardegna perché qui è tutto diverso: il cantante mangia con il comitato, non lo mandano da solo in ristorante...».

Se Eugenio avesse 20 anni farebbe un talent?

«Sì, e forse lo vincerei anche. I talent privilegiano chi sa fare più cose. Canto pure in sardo».

Ha più pensato a Sanremo?

«Il primo lo feci negli anni ’80, il playback, Pippo Baudo, tutto più semplice. Ora è una cosa gigantesca. La settimana di Sanremo è uno sforzo fisico enorme. Non so se ce la farei in gara. Ma come ospite, perché no?».

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