Nuoro, presepe rubato: i detenuti ricomprano le statuine
di Simonetta Selloni
La natività allestita in via Cedrino dagli abitanti del quartiere era sparita giorni fa. I reclusi partecipano a percorsi di giustizia riparativa con la coop “Ut unum sint”
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NUORO. Gesù bambino è tornato nella sua mangiatoia, e vicino a lui ci sono Giuseppe, Maria, l’arcangelo Gabriele, il bue e l’asinello, i Re Magi, con il contorno di pastori e pecorelle. Il presepe allestito in via Cedrino dagli abitanti del quartiere era stato rubato qualche giorno fa. Un gesto inspiegabile, a pensarci bene: a chi può venire in mente di rubare il presepe? Comunque, a rimettere le cose al loro posto ci hanno pensato i detenuti ospiti del Centro di accoglienza gestito dalla cooperativa sociale “Ut unum sint”, che da tempo ha aperto le sue porte anche ad alcuni reclusi scarcerati per via della pandemia e che nel Centro finiranno di scontare le pensa in regime di detenzione domiciliare. Alcuni di loro sono dipendenti della coop, altri sono in libertà vigilata, qualcuno è semilibero, altri ancora sono ammessi a lavori di pubblica utilità e qualcuno è impiegato – con borse lavoro della coop –, in ditte esterne. Sono sardi, della penisola, di paesi extraeuropei. Cattolici, musulmani. Tutti, indistintamente, hanno messo mano alle loro tasche e si sono quotati, per ricomprare le statuine e riallestire il presepe. Hanno, in effetti, rimesso le cose al loro posto.
Rimettere le cose al loro posto, diventare protagonisti positivi rispetto ai danni conseguenti a un’azione criminosa fa parte delle buone pratiche della giustizia riparativa. I deternuti che fanno capo alla cooperativa hanno da tempo intrapreso questo percorso, guidati dal presidente della cooperativa, don Pietro Borrotzu e da esperti della materia. E secondo il principio della “responsabilità sociale” che guida le pratiche riparative, è necessario che qualcuno ripari il danno provocato, anche quando non è stato quel qualcuno a commetterlo. Fermo restando il principio della responsabilità penale che è personale, il percorso di riparazione va oltre e si pone nella condizione di fare qualcosa per dare un segnale concreto anche nei confronti della società. «Quando abbiamo saputo del furto del presepe abbiamo parlato a lungo – sottolinea don Borrotzu –. Al di là dell’indignazione, abbiamo detto: ma noi, cosa vogliamo fare per rimettere le cose a posto? La risposta è stata un segno concreto, positivo e propositivo». Nessuno di loro certamente aveva rubato le statuine, eppure da questo furto tutta la comunità ha subito un’offesa: e ognuno, per quel pezzo che gli compete, ha il compito di metterci una pezza.
C’è una bella immagine che guida il percorso intrapreso da persone che hanno sbagliato e che, oltre la presa di coscienza dell’errore, intendono fare qualcosa di concreto. I progetti che guidano la giustizia riparativa avviata dal Centro di accoglienza, nato una decina di anni fa, si chiamano “Riannodare i fili”: i fili spezzati dentro la persona, che ha commesso il reato, i fili delle relazioni con la propria famiglia, con la comunità e più in generale con la società, per alcuni versi colpevole di non essere riuscita a includere tutti dentro un comportamento virtuoso e per altri versi vittima anch’essa dei vari reati.
«Abbiamo scelto di interpretare la vita come un arazzo che si costruisce e si ricama ogni giorno, dove tutti i fili hanno dignità e utilità e nulla viene buttato: collocato al posto giusto, ciascuno di essi riacquista lucentezza, vitalità e importanza», dice ancora don Borrotzu.
Rimettere le cose al loro poso. Riannodare i fili. Anche quelli di vite spezzate. Si può farlo, partendo dalle statuine ricomprate per un presepe di quartiere.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Rimettere le cose al loro posto, diventare protagonisti positivi rispetto ai danni conseguenti a un’azione criminosa fa parte delle buone pratiche della giustizia riparativa. I deternuti che fanno capo alla cooperativa hanno da tempo intrapreso questo percorso, guidati dal presidente della cooperativa, don Pietro Borrotzu e da esperti della materia. E secondo il principio della “responsabilità sociale” che guida le pratiche riparative, è necessario che qualcuno ripari il danno provocato, anche quando non è stato quel qualcuno a commetterlo. Fermo restando il principio della responsabilità penale che è personale, il percorso di riparazione va oltre e si pone nella condizione di fare qualcosa per dare un segnale concreto anche nei confronti della società. «Quando abbiamo saputo del furto del presepe abbiamo parlato a lungo – sottolinea don Borrotzu –. Al di là dell’indignazione, abbiamo detto: ma noi, cosa vogliamo fare per rimettere le cose a posto? La risposta è stata un segno concreto, positivo e propositivo». Nessuno di loro certamente aveva rubato le statuine, eppure da questo furto tutta la comunità ha subito un’offesa: e ognuno, per quel pezzo che gli compete, ha il compito di metterci una pezza.
C’è una bella immagine che guida il percorso intrapreso da persone che hanno sbagliato e che, oltre la presa di coscienza dell’errore, intendono fare qualcosa di concreto. I progetti che guidano la giustizia riparativa avviata dal Centro di accoglienza, nato una decina di anni fa, si chiamano “Riannodare i fili”: i fili spezzati dentro la persona, che ha commesso il reato, i fili delle relazioni con la propria famiglia, con la comunità e più in generale con la società, per alcuni versi colpevole di non essere riuscita a includere tutti dentro un comportamento virtuoso e per altri versi vittima anch’essa dei vari reati.
«Abbiamo scelto di interpretare la vita come un arazzo che si costruisce e si ricama ogni giorno, dove tutti i fili hanno dignità e utilità e nulla viene buttato: collocato al posto giusto, ciascuno di essi riacquista lucentezza, vitalità e importanza», dice ancora don Borrotzu.
Rimettere le cose al loro poso. Riannodare i fili. Anche quelli di vite spezzate. Si può farlo, partendo dalle statuine ricomprate per un presepe di quartiere.
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