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Olbia, vita da senzatetto: la casa è un fienile

di Dario Budroni
Olbia, vita da senzatetto: la casa è un fienile

L’appello choc di una famiglia che ha trovato rifugio in uno stazzo abbandonato e senza servizi a Santa Mariedda

25 ottobre 2015
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OLBIA. Il terzo mondo abita qui. In un vecchio fienile che svetta in mezzo alla campagna. La porta non esiste. E la doccia è una pompa che spara acqua ghiacciata tra sterpaglie e rottami arrugginiti. E poi ci sono i topi, grandi quanto gatti. Di notte si intrufolano nella stanza e indisturbati passeggiano tra il letto e il fornello malandato. Qui dentro ci abita una famiglia serba. Sono in cinque: padre, madre, due ragazze ventenni, entrambe disabili, e un ragazzino che ha smesso di andare a scuola. Vivono peggio degli animali. Ma non smettono di sognare una vita migliore. «Sogniamo una casa vera. E poi vorrei lavorare, per sentirmi realizzato e non un peso per gli altri. Adesso campiamo con una pensione di 290 euro di mia figlia» racconta amareggiato il capofamiglia, in Italia dalla fine degli anni ’70.

Famiglia unita. Loro abitano in zona Santa Mariedda, in un ex fienile di 25 metri quadri, a pochi chilometri dal centro città. Appaiono tutti molto uniti e ben consapevoli della loro situazione. Il padre un tempo raccoglieva e riciclava i metalli. La sua compagna, diabetica, non lavora. Poi ci sono le due figlie, entrambe cittadine italiane, invalide al 100 per cento: una si muove con fatica, l’altra soffre di disturbi psichici. E poi c’è l’ultimo figlio, di 13 anni, che non va più a scuola. «Si vergogna. La mattina non può neanche lavarsi e poi viene emarginato» spiega il padre.

Situazione delicata. La famiglia serba abita in questo tugurio dal 2009, prima viveva a Roma. Fino al 2013 pagava 150 euro di affitto, poi ha smesso per mancanza di soldi. Con i proprietari della baracca è in atto una battaglia: loro vogliono cacciarli, i cinque serbi invece vogliono rimanere. «E altrimenti dove andiamo?» dicono. Hanno anche rifiutato un alloggio nel campo rom di Roma. «Perché noi non siamo rom. E secondo me quello non è il luogo adatto dove far crescere i miei figli. Poi a noi Olbia piace» specifica il padre. Ora i cinque mangiano alla mensa dei poveri. E sono costantemente seguiti dall’associazione Libere energie, guidata da Ginetto Mattana. Anche Caritas e Comune sono intervenuti con piccoli aiuti. Ma loro vorrebbero di più. «La Caritas non ci dà un alloggio perché dice che c’è gente messa peggio di noi. Vorrei che venisse qui a vedere come viviamo» aggiunge lui.

Dentro il tugurio. La “casa” è senza finestre. D’estate si muore dal caldo, d’inverno si congela. Niente corrente elettrica. «Con le candele abbiamo rischiato di bruciare vivi, ora ci illuminiamo con una tv collegata alla batteria del furgone. Mia figlia deve fare l’aerosol, ma non possiamo mica accenderlo» racconta il padre. Ovviamente qui non esiste neanche il bagno. I bisogni si fanno infatti all’aperto. Anche la doccia si fa all’aperto, con una pompa. «Di notte entrano pure i topi – interviene una figlia -. Io devo coprirmi con le coperte perché mi passano sopra, mi fanno schifo».

Alluvionati. I cinque nel 2013 hanno dovuto fare i conti anche con l’alluvione. «Abbiamo dormito prima in hotel e poi ci hanno dato una casa a Bados per qualche mese» racconta il padre. E alla figlia più grande si illuminano gli occhi: «Era roba da ricchi, roba chic. Abbiamo pianto quando ce ne siamo andati da quella casa». Così sono tornati nel vecchio tugurio. «Non firmai l’ordinanza di sgombero, altrimenti non avrei saputo dove andare – aggiunge il padre -. Durante la nostra assenza qualcuno ci ha anche rubato una motosega e dei vestiti. E siamo diventati più poveri di prima».

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