La Nuova Sardegna

 

IL COMMENTO. Donne vittime, la vita in quarantena diventa violenza

di Silvia Sanna
IL COMMENTO. Donne vittime, la vita in quarantena diventa violenza

Crescono i casi denunciati ai tempi del coronavirus: in tante hanno trovato la forza di fuggire da un rapporto malato

29 aprile 2020
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C’è chi dopo il quarto piatto lanciato e schivato di un soffio e la fuga in camera da letto, ha deciso di dire basta. Via di casa, via dall’incubo nell’incubo. Donne con le rughe e i capelli grigi, schiave di un rapporto infelice e di un compagno sbagliato. Durante la quarantena hanno trovato la forza per fare qualcosa che negli anni è stato sempre rimandato. Lasciarli, scappare, riprendersi in mano una vita a brandelli e ricominciare.

Effetto coronavirus, uno dei pochissimi positivi. Perché lo stop al lavoro o lo smart working a larga diffusione hanno fatto emergere con prepotenza una verità semi nascosta: la vita in famiglia per moltissime donne non è propriamente in stile Mulino Bianco, tra colazioni festose, bimbi super pettinati e mariti con il sorriso stampato h24. La realtà assomiglia di più a un purgatorio in terra segnato da gesti quotidiani ripetuti negli anni e da una costante: niente di quello che si fa andrà bene per il marito-compagno violento, dalla pasta troppo cotta al calzino spaiato, e offrirà sempre una nuova occasione per andare avanti nell’opera di demolizione-umiliazione.

Per chi la subisce, questo genere di vita è una sorta di libertà vigilata dalla quale ogni tanto si riesce a evadere per riprendere fiato, sfogarsi quasi sempre in solitudine, fare un lungo sospiro e ricominciare. Ma con il coronavirus e la libertà vigilata trasformata in carcere duro tra le quattro mura, la situazione si complica e diventa esplosiva. Negli ultimi due mesi in tante case dell’isola sono andati in scena copioni fotocopia. Donne spaventate e compagni sempre più violenti e offensivi all’interno di appartamenti trasformati in pentole a pressione.

E se prima tante approfittavano dell’assenza del marito per chiedere aiuto con una telefonata o andando a bussare alla porta di un centro antiviolenza, nei due mesi di reclusione obbligata le chiamate sono diminuite. Troppa la paura di essere scoperte e di risvegliare l’orco. Negli ultimi 60 giorni che hanno cambiato la storia del mondo si è parlato troppo poco di chi ha vissuto una emergenza nell’emergenza. Donne prigioniere, costrette a condividere spazio e tempo con qualcuno di cui si ha paura, impegnate nella delicatissima missione di salvare la pelle a se stesse e – se ci sono – anche ai figli.

Nelle primissime settimane queste donne sono rimaste in silenzio e hanno subito. Troppo complicato chiedere aiuto – hanno pensato – se non possiamo uscire di casa se non per fare la spesa. Poi, quando hanno capito che a casa sarebbero dovute rimanere a lungo, molte hanno deciso di dire basta. Chiuse in bagno, nel ripostiglio mentre lui dorme o guarda la tv, hanno composto sul cellulare i numeri di emergenza o dato l’allarme attraverso la app delle forze dell’ordine. Hanno gridato «sono qui, aiutatemi».

Altre invece hanno fatto la valigia e sono uscite di casa sbattendo la porta. Donne di 60-70 anni e una vita di violenze e soprusi da raccontare. Arrabbiate più con se stesse che con i responsabili perché, hanno detto alle operatrici dei centri, «avrei dovuto farlo molto prima». Eccola la vera libertà, da assaporare senza bisogno dell’autocertificazione per uscire di casa. D’altra parte, che cosa più del salvarsi la vita può essere un valido motivo?


 

 

 

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