Anche il decisionismo di Londra è in crisi
La crisi del governo Johnson è innanzitutto la crisi di una leadership interpretata in modo muscolare, eccentrico, provocatorio, esteticamente antiestablishment e anticonformista, ma sostanzialmente elitario e classista
La crisi di governo che sta vivendo in questi giorni il Regno Unito non è un segno della patologia dei sistemi liberal democratici. Al contrario, mentre nelle autocrazie il potere è inamovibile, sostenuto da caste e oligarchie, tratto costitutivo delle democrazie liberali è il controllo politico e sociale su chi è investito di una responsabilità pubblica, revocabile quando viola principi e regole della vita democratica.
Boris Johnson si è dimesso dopo che nell’arco di tre anni oltre 40 membri dal suo governo - ministri e sottosegretari - hanno deciso di lasciare l’esecutivo e dopo che, un mese fa, almeno 40% dei membri del gruppo parlamentare conservatore alla Camera dei Comuni gli aveva dichiarato la sfiducia. Una crisi annunciata e venuta definitivamente a maturazione alla rivelazione dell’ennesimo scandalo di natura sessuale, una costante della vita politica inglese. Tuttavia sarebbe riduttivo ricercare lí la ragione del crollo del leader britannico. La crisi del governo Johnson è innanzitutto la crisi di una leadership interpretata in modo muscolare, eccentrico, provocatorio, esteticamente antiestablishment e anticonformista, ma sostanzialmente elitario e classista. Johnson è stato di fatto il capo degli hard brexiters e in nome di questa posizione estrema ha prima logorato e poi sostituito il governo di Theresa May. E con piglio decisionista, ma anche grazie alle incertezze dei suoi avversari, a cominciare dai laburisti, ha vinto le elezioni con percentuali che non si conoscevano dagli anni ’80.
Con lo stesso piglio ha affrontato la pandemia. Ed è stato proprio a partire dal Covid che ha iniziato a incrinarsi il rapporto di fiducia tra Bojo e il popolo della Regina Elisabetta. Le rivelazioni della partecipazione del Premier e di alcuni ministri ad affollati party esposti al rischio di contagi mentre agli inglesi era imposto un rigido lock down hanno urtato significativamente la sensibilità dell’opinione pubblica: se predichi l’immunità di gregge non ti puoi comportare come un toro. Tanto più di fronte alle difficoltà di milioni di inglesi la cui quotidianità è insidiata dall’estendersi della povertà e da una inflazione al 9%, la più alta tra tutti i paesi del G7.
La crisi di fiducia in Johnson è così emersa nelle sconfitte in importanti elezioni comunali e nelle elezioni suppletive in due circoscrizioni elettorali da sempre in mano ai conservatori. Insomma con le dimissioni di Johnson si archivia anche in Europa la stagione del primato della decisione sulla cultura della mediazione. La crisi di quel modello di leadership non è però la crisi della democrazia britannica. Nessuno immagina per ora di andare alle elezioni. Sta al partito di maggioranza e al suo gruppo parlamentare indicare il nuovo premier secondo le regole delle democrazie parlamentari in cui i governi non vengono eletti dal popolo, ma votati dalle assemblee legislative.
C’è infine una terza riflessione ed è relativa al modello dei rapporti internazionali impostato da Johnson che, abbandonata l’Unione europea, ha coltivato l’illusione di costruire una relazione alla pari con gli Usa per una leadership anglosassone dell’occidente. Sarebbe tuttavia una miopia rallegrarsi delle difficoltà inglesi. Londra e Bruxelles non possono ignorarsi, una relazione è di reciproco interesse e l’Unione Europea deve aiutare la Gran Bretagna a uscire da un isolazionismo da cui non trae alcun beneficio. La speranza è che il prossimo inquilino di Downing Street possa essere un interlocutore capace di costruire con con il continente una relazione più cooperativa e meno muscolare.