La Nuova Sardegna

la scoperta

Il Granazza? Un vitigno autoctono

di Marco Sedda
Il Granazza? Un vitigno autoctono

Dalle analisi genetiche nuova luce su un’uva considerata minore

11 marzo 2013
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MAMOIADA. Per secoli è rimasto misconosciuto, pochi ceppi di uva bianca tra le vigne dominate dal rubicondo cannonau, soprattutto a Mamoiada ma anche a Orgosolo e Oliena. Un vitigno antico, che però è stato considerato quasi un curioso intruso, poco valorizzato e spesso utilizzato nell’uvaggio del cannonau. Una tradizione seguita ancora oggi da molti piccoli produttori che non producono il cannonau doc, dato che usare le bacche bianche è proibito dal disciplinare. Anche quando veniva vinificato in purezza, sa granazza era relegato a prodotto di nicchia, vinu ‘e missa o vinu ‘e eminas, adatto ai preti e alle donne perché amabile, come dice con malcelato disprezzo chi ha il palato avvezzato dal cannonau. Un anonimato durato secoli a cui ha contribuito lo stesso nome con il quale è conosciuto il vitigno in questa zona della Barbagia: granazza è infatti uno dei tanti modi con cui in Sardegna è chiamata la vernaccia, e anche per questo è stato spesso confuso con altri tipi di uva bianca. Ma oggi, grazie alla ricerca scientifica, sa granazza di Mamoiada riemerge dall’oblio. I primi a crederci sono stati i Sedilesu, che dal 2002 lo vinificano in purezza producendo il Perda Pintà, dalle 2 alle 6 mila bottiglie l’anno. Un vino potente che si è meritato 17/20 nella guida dell’Espresso del 2005 e per due volte, nel 2007 e nel 2012, è stato premiato con tre bicchieri dalla guida del Gambero rosso. Sedilesu lo vinifica in due modi, con e senza buccia. Incoraggiato dagli ottimi risultati, Francesco Sedilesu, enologo e responsabile della cantina, ha fatto analizzare alcuni campioni dall’università di Sassari e dall’Agris, l’agenzia della Regione che si occupa di ricerca in agricoltura. I risultati sono stati sorprendenti: «In Sardegna non ne abbiamo trovato uno uguale: è un vitigno autoctono e poco conosciuto, con caratteristiche tutte sue, anche dal punto di vista genetico – spiega Gianni Lovicu, ricercatore dell’Agris – ma il nome con cui è chiamato ha sempre tratto in inganno. Abbiamo dimostrato che con la vernaccia non ha nulla a che vedere». Dopo averlo raffrontato con i vitigni sardi, ora il confronto genetico verrà fatto su quelli nazionali e internazionali: «È necessario per dimostrare che non solo è autoctono ma è anche originario della Sardegna». Non è l’unico vigneto riscoperto a Mamoiada dai Sedilesu. «Stiamo facendo microvinificazioni – dice Francesco Sedilesu – utilizzando un’uva che qui chiamiamo Nigheddu presorju (il nome, “nero che lega”, può dare un’idea delle sue caratteristiche, ndr). È un unicum, un vigneto antico e di qualità». Ma non è il solo: «La Sardegna per i vigneti è come il Brasile rispetto al calcio – dice Lovicu – il panorama e l’eterogeneità che abbiamo non hanno pari al mondo. Nell’isola abbiamo circa 150 vitigni autoctoni e nel Mandrolisai un’altra decina non classificati. E abbiamo dimostrato che il Muristellu deriva dalla vite selvatica, addomesticata e quindi coltivata già nell’antichità».

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