Pechino disegnata da Sciola Una grande scultura sonora
Successo al Lirico di Cagliari per l’esordio della “Turandot” di Puccini La scenografia dell’artista di San Sperate seduce il pubblico del Comunale
CAGLIARI. C’è un’iniziale che segna curiosamente il legame di Sciola a «Turandot». Quasi una costante matematica, come pi greco. Che guarda caso è proprio la lettera “P”. Come Pinuccio, il suo nome. Come Puccini, compositore dell’opera (e anagramma quasi di Pinuccio). Come Pechino, città che ha reinventato per quest’inedita produzione del Lirico. E ancora “p” come pietra, materia a lui così familiare, scaturigine primaria della sua ispirazione. O come “pitagorico”, definizione che Philippe Daverio gli ha attribuito, al Comunale, due settimane fa in una lectio magistralis.
Piuttosto calzante. Vista la Città Imperiale che, nella sua immaginifica ricostruzione, accoglie forme geometriche variamente combinate. I pannelli quadrati di diversa altezza, disposti su più livelli, a simboleggiare le maestose e impenetrabili mura di Pechino. Mura che s’aprono come scatole cinesi, per poi mostrare il trono di Altoum. Da sotto il quale sorgerà l’ultimo più piccolo quadrato, contenente Turandot. La gelida principessa, infatti, sorge come la luna levatasi la quale va decapitato l’ennesimo principe, sconfitto dai tre enigmi di Turandot. Al cerchio della luna fa eco la circonferenza d’una ruota di pietra che, al contempo, è cornice del gong (suonato per sfidare la principessa) nonché una mola su cui i boia affilano le proprie lame.
Nel terzo atto, poi, Pechino si fa moderna, futuristica, e quasi surreale: una serie di parallelepipedi, moltiplicati in profondità da proiezione video, sono prismi di roccia che simulano grattacieli. Cosicché, assieme al regista Pier Francesco Maestrini, il debutto di Sciola nella scenografia teatrale appare già sofisticato, all’insegna d’una certa polisemia. Un ulteriore esempio: la particolare grata che, nei primi atti, lascia intravedere Turandot dietro una fila di listelli verticali, simili ad un’arpa di pietra, o dalla vaga forma d’una ghigliottina, proprio laddove la principessa conferma la decapitazione dello sfidante persiano.
Tutta la Pechino di Sciola è come fosse un’immane e complessa “scultura sonora”: il light designer Simon Corder ne esalta i tagli, le fenditure, i vuoti e le ombre; Marco Nateri la anima con i suoi costumi, nati da una scrupolosa ricerca delle tradizioni vestimentarie cinesi. La potenza visiva ha poi un riscontro nella buona direzione di Giampaolo Bisanti, in un’Orchestra del Lirico dal suono sfavillante, massiccio, policromo, di grande effetto senza perdere mai nitidezza. Il cast è di media bravura. Eccezion fatta per la Liù di Maria Katzarava, ottima per espressività attoriale, fraseggio, gestione del fiato, limpidezza timbrica e mezze voci incantevoli.
Alla Turandot interpretata Maria Billeri, invece, non manca l’estensione e il volume, ma ha un pesante “vibrato” sul registro acuto, meglio dosato forse in quello medio-grave. Francesco Medda, avendo sostituito all’ultimo momento l’indisposto Roberto Aronica, è un Calaf di recitazione poco collaudata, con qualche difficoltà di dinamica e voce un po’ ingolata. Discreto il trio dei ministri, Gezim Myshketa, Gregory Bonfatti e Massimiliano Chiarolla, così come l’Altoum di Davide D’Elia e il Timur di Carlo Cigni. Lodevole il coro, istruito da Marco Faelli, la migliore performance assieme a quella di Liù.