La Nuova Sardegna

A Sassari cancellato il reparto malattie rare, i pazienti: per noi è la morte

Luigi Soriga
A Sassari cancellato il reparto malattie rare, i pazienti: per noi è la morte

Clinica medica riconvertita in un bunker Covid, in 150 restano senza cure

23 ottobre 2020
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SASSARI. In superficie c’è il covid che increspa il mondo, ma sotto c’è un fondale immobile di altre malattie che annegano nel silenzio. Piera non ha paura del virus, di questa onda anomala che ti porta via all’improvviso. Ha più paura di restare sommersa dalla risacca successiva, che ti risucchia la vita pian piano, nell’abbandono. Come lei ci sono altre 150 persone, e sono gli orfani del Day hospital della palazzina di Clinica Medica, riconvertita a bunker covid in un batter d’occhio.

«Venerdì scorso ci hanno detto che chiudeva tutto e che le nostre terapie sono sospese. Fino a quando? Non lo sappiamo. Forse finché il virus non darà tregua».

Chi ha una malattia rara vive con il conto alla rovescia inserito. Il tempo ha una densità diversa, è una sostanza preziosa. Ogni giorno che passa si oblitera sulle mani di Piera, marchiando a fuoco la sofferenza. Il palmo è livido, le dita sgualcite come fossero a mollo da sempre. «Se non farò la mia cura settimanale, senza i farmaci vasodilatatori – dice – il rischio è l’amputazione. Ho 56 anni, dal 2015 sono affetta da sclerosi sistemica, che pian piano aggredisce il tessuto connettivo di ogni mio organo. Per ora succede con le mani, i piedi e i polmoni. Sono malattie degenerative, dalle quali non si può guarire. Si può solo cercare di gestirle, ma senza una terapia siamo condannati».

Il secondo piano di Clinica Medica è una grande famiglia. Vive sotto pelle, è fatta di nomi terribili e sconosciuti, come Lupus eritematoso, miosite autoimmune, Malattia di Batten, morbo di Crohn. Sono persone dai 35 ai 60 anni, arrivano da tutto il Nord Sardegna, chi ogni giorno, chi una volta alla settimana, per sottoporsi a infusioni endovenose che durano anche sei ore. E che poi ti riconsegnano a casa come un relitto spiaggiato, in balia della nausea e dei dolori su ogni centimetro di carne. «La prima volta che ho messo piede nel day hospital, è stato cinque anni fa, e sono rimasta terrorizzata. Ignoravo questo mondo. Sappiamo che si muore di tumore, di infarti, ora anche di Covid, ma non immaginavo un simile sottobosco di sofferenza. Guardavo i pazienti, vedevo le loro deformazioni scritte nei corpi, e mi dicevo: io non sarò mai così. E invece pian piano lo sono diventata, e come tutti coltivo la mia consapevolezza, lotto, e so che dovrò morire». La malattia però può trasformarsi in un collante umano eccezionale: «Qui ho trovato i miei migliori amici. Non perché le nostre sfighe ci rendano persone migliori o speciali, ma perché chi soffre si capisce al volo. Se io dico a una persona normale “sono stanca”, lui non peserà mai la mia spossatezza, che è qualcosa di disumano, profondo, la stanchezza della malattia. Noi, i nostri stati d’animo, li percepiamo al volo». Sospira: «Alla fine non sono preoccupata tanto per me, ma per i miei compagni. Io sono quasi fortunata: ho un lavoro che bene o male riesco a gestire. Ho una colf che mi aiuta in casa, e mi evita il travaglio di utilizzare le mani per le pulizie. Ma ci sono persone che hanno già subìto amputazioni, che sono senza gambe o mani, perché queste malattie camminano, e se non ti curi ti portano alla cancrena».

I medici e gli infermieri sanno bene l’andamento della spirale impietosa. E quando, la settimana scorsa, hanno dovuto comunicare la chiusura del day hospital, lo hanno fatto con la morte nel cuore. Per i pazienti è stato come uno sportello di un’auto che si apre sul ciglio dell’autostrada, e vieni scaricato al tuo destino.

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«Tengo a sottolineare una cosa – dice Piera – io non voglio togliere nulla ai malati di Covid. Anzi, è un’emergenza che anche noi viviamo sulla nostra pelle, perché abbiamo un sistema immunitario devastato, molti soffrono già di fibrosi polmonare, e un contagio sarebbe una definitiva sentenza di morte». Chi soffre di malattie rare, anche su questo fronte, si ritrova suo malgrado in prima linea. Lo sa bene chi in primavera, durante il primo lockdown, ha dovuto scegliere tra consegnarsi al covid o alla propria patologia. «Molti avevano talmente paura di contrarre il virus, che preferivano non curarsi, piuttosto che rivolgersi alle Cliniche. C’era ancora caldo, e con quelle temperature i dolori a mani e piedi sono ancora sopportabili. Io, in quei due mesi, ero uno dei pochi utenti che continuavo ad andare, perché non potevo far a meno della terapia. Senza non riuscirei ad afferrare un oggetto, a uscire di casa, a fare la spesa, a vivere in maniera dignitosa. Ma il day hospital in quei giorni era deserto e spettrale, e stare lì da sola, per sei ore con un ago in vena, è stata una prova che mi ha segnata».

Adesso però quel calvario vien da rimpiangerlo, perché dentro il tubicino e la cannula, scivola una sostanza che assieme ai vomiti e ai dolori, regala un po’ di vita.

«Non ci interessa avere un altro reparto, attrezzato di tutto punto, con poltroncine comode. Dateci anche una stanzetta, una manciata di metri quadrati, una sedia, un medico e un infermiere. Ci basta poco per esservi grati. Ma non dimenticatevi di noi, non lasciateci nel limbo, senza alcuna certezza, con l’angoscia e con la sensazione di essere stati abbandonati». Perché oltre al triste pallottoliere del Covid, poi si aggiungerà la conta delle morti collaterali.

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